24 maggio 2019
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Biografia di Flavio Bucci
Flavio Bucci, nato a Torino il 25 maggio 1947 (72 anni). Attore. «Il tormento di Ligabue. Le cupe elucubrazioni del commissario Ingravallo immerso nel pasticciaccio di via Merulana. Il discorso dal patibolo di Bastiano, il prete anarchico del Marchese del Grillo, sciorinato nel suo molisano ancestrale. Pianista cieco in Suspiria, di Dario Argento e, comico a sorpresa, il superdotato Gegè Bellavita con Festa Campanile. Una carriera a tutto campo» (Giorgio Cavagnaro). «Della mia esistenza nulla rimpiango, se non la vecchiaia. Ma quella, purtroppo, non è dipesa da me» (ad Andrea Lavalle) • Nato a Torino da madre pugliese e padre molisano. «La smania di fare l’attore mi era venuta da ragazzo al Cinema Teatro Maffei, dietro casa. C’era tutto l’universo, lì dentro. Il comico piemontese, che faceva sbellicare. Le ballerine, che mi facevano impazzire. Con una, mi ci fidanzai: poi un suo fervido ammiratore, una leggera, mi puntò la pistola alla testa, e desistetti. E poi c’era il grande schermo: il cinema, su cui scorreva tutto il pianeta Terra, perfino la Monument Valley americana» (a Giuseppe Sansonna). «Avevo appena terminato il servizio militare ed ero tornato a Torino non sapendo ancora cosa volessi fare, anche se mi stavo laureando in Legge. Poi ho iniziato a frequentare il Teatro Stabile, perché il teatro mi era sempre piaciuto, e dopo il saggio finale mi hanno chiamato a Roma per fare uno spettacolo: mi davano 2.000 lire al giorno. Era il 1968. Sono partito, e qui sono rimasto» (ad Alessandra Stoppini). «Mio padre era un rappresentante edile e, non so perché, amico della madre di Volonté. La sera che arrivo a Roma, suono alla porta di Gian Maria, in vicolo del Moro. Lui non mi fa nemmeno entrare, si mette la giacca e mi porta alla sezione del Pci a fare la tessera. Questa è la storia, così andava. E fu lui a farmi conoscere il mio maestro, Elio Petri» (a Tiziana Platzer). «A Roma […] debuttò in teatro con un lavoro, L’arcitreno, di Silvano Ambrogi. Poi avvenne il fortunato incontro con Elio Petri, che lo fece esordire nel cinema con La classe operaia va in paradiso» (Ernesto Baldo). «“Er capoccione, così chiamavano Petri nel mondo del cinema. Corpo piccolo e testone enorme, che gli scoppiava di idee. Per me è stato un secondo padre. Però, ammazza quanto me menava. Se ti vedeva un po’ stanco o svogliato sul set, ti riempiva di pugni e bestemmie. Menava persino Volonté, che era più folle e più grosso di lui. […] Era il 1971: in America cominciavano a venire fuori facce strane, mai ammesse prima sullo schermo. Gente come Dustin Hoffman o Al Pacino. E allora, a Cinecittà, si pensò che ci poteva essere posto pure per Flavio Bucci. La nostra tradizione aveva due grandi filoni. I telefoni bianchi, Amedeo Nazzari, Girotti e compagnia bella. Gente statuaria, facce da monumento equestre. Contrapposti all’assurdità di Totò, la maschera comica. In mezzo non c’era nulla, e siamo arrivati noi. Io, lo ammetto, ero impresentabile, un po’ tutto quello che non si doveva essere. Non bello, nemmeno troppo simpatico, con la faccia di chi non promette nulla di buono. E lo mantiene. Il muso strano di uno che potrebbe ribellarsi con violenza, senza controllo, da un momento all’altro. Turbavo, e servivo a un cinema che voleva perturbare, nel segno dell’impegno civile”. Due anni dopo, Petri gli affida un ruolo da protagonista. Il film è La proprietà non è più un furto. Bucci è Total, bancario paradossale: il contatto con le banconote gli fa germogliare sulle mani stimmate di dermatite. L’odiato nemico di classe ha le fattezze torpide di Tognazzi, ricchissimo macellaio romano. Arriva allo sportello con borse zeppe di banconote e filetti Chateaubriand, grevi omaggi per il direttore. Convertito alla patafisica del marxismo-mandrakismo, Bucci decide di alleggerire il norcino plutocrate del plusvalore in eccesso» (Sansonna). «Grazie al suo volto particolarissimo, di cui gli occhi (straordinari e “spiritati”, come da molti è stato rilevato) sono caratteristica fondamentale, è in seguito chiamato a interpretare personaggi non facili in film di grande impegno. Recitazione nervosa che viene dal suo più intimo profondo, qualche volta sopra le righe per un’innata vocazione all’esagerazione, mattatore autentico sulle scene, […] riesce a raggiungere il sublime dando voce, corpo e anima al difficilissimo personaggio del “pittore folle” Antonio Ligabue (film televisivo di S. Nocita). Un’interpretazione così straordinariamente aderente alla realtà, così commossa e commovente che resta nel ricordo come una delle più belle che il pubblico abbia mai avuto occasione di godere» (Roberto Poppi). «La pazzia gli si tatuò addosso dopo il primo, folgorante successo: l’Antonio Ligabue scorticato vivo, che ululava solitario al Po, si metteva i vestiti da donna, unico modo concessogli “per sentire il contatto con la femmina”, e smanacciava colori sulla tela. Partorendo tigri a fauci spalancate, strangolate da serpenti che vedeva solo lui, nella piana emiliana di Gualtieri. Per creare la mimesi definitiva, Flavio si faceva proiettare ogni giorno, in un cinema del paese, i meravigliosi documentari di Raffaele Andreassi dedicati a Ligabue. Quanto basta per garantirsi un successo nazionale, plebiscitario. “Ero un bel mostro, ipnotico. Diciassette milioni di telespettatori inchiodati a guardarmi, nel 1977. Presi anche un premio al festival di Montréal, ma quello stronzo di Lucherini, il boss dei press agent, decise che non dovevo ritirarlo io. Bucci non può rappresentare il cinema italiano. E ci mandarono Tognazzi, che non c’entrava nulla: non era nemmeno nel cast”. […] Non restava che assumerla come stella polare, la pazzia: impressa sul volto dalle prime battute di carriera, venne accolta da Bucci come preziosa tara fisiognomica, da declinare in una gamma di sfumature. Nacquero così i suoi poveri diavoli torvi, i drop out erotomani, i terroristi macerati» (Sansonna). «Nel 1977 ricopre il ruolo di Daniel in Suspiria, tra le opere più sperimentali realizzate da D. Argento quanto a soluzioni tecniche ed estetiche, mentre nel 1980 impersona i fallimenti degli ideali sessantottini nel film di M.T. Giordana Maledetti vi amerò. M. Monicelli lo dirige prima ne Il marchese del Grillo (1981) e successivamente in Le due vite di Mattia Pascal (1985). Un altro regista con il quale Bucci instaura un’assidua collaborazione è G. Montaldo (L’Agnese va a morire, 1976; Circuito chiuso, 1978; Il giorno prima, 1987)» (Gianni Canova). «Nel 1981 è stato il Don Sturzo televisivo e l’anno successivo Carlo Cafiero, protagonista de Il diavolo al Pontelungo. Nel 1983 ha impersonato il commissario di polizia Ciccio Ingravallo, incaricato di sgrovigliare Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, nello sceneggiato tratto dal capolavoro di Carlo Emilio Gadda. Tra le successive, intense interpretazioni per il piccolo schermo va ricordata quella offerta ne L’ingranaggio (1988)» (Aldo Grasso). «Era sempre labile, nei suoi personaggi, il confine tra devianza e disperazione. Una sospensione ambigua, che lo ha reso una figura unica, dalla recitazione moderna e fin troppo connotata per sopravvivere in un cinema diventato anemico, al giro di boa degli anni Ottanta. Relegandolo così a riservare la sua prorompente devianza al teatro, in lungo e in largo per la penisola. […] Ha offerto per decenni la sua corda pazza, fatta di corpo, voce e fibra, alle maschere pirandelliane o a mostri fin troppo seducenti come Riccardo III e Shylock. Ha sempre giocato da primattore tradizionale, ottocentesco, mantenendosi scettico sulle avanguardie. “Ahò, sospennete ’e ricerche”, bofonchia ancora oggi, sornione, sostituendo alla cadenza torinese un romanesco utile a liquidare brutalmente cantine off e sperimentalismi di tutte le epoche. Non ha mai tradito apertamente l’ufficialità del teatro di tradizione, con i suoi archetipi eterni, i suoi personaggi con un’identità precisa, non contaminata da cervellotiche rivisitazioni. Ha preferito corroderla internamente, la monumentale scena italiana, ispirato dalla stella polare di una follia pericolosa, abitata in scena e nella vita. Cavallo di battaglia prediletto, il pazzo gogoliano, meticoloso narratore, su diario intimo, della propria deriva. “L’ho fatto per troppi anni. Ogni sera, prima di andare in scena, mi chiudevo in camerino, a fissare lo specchio. Tre ore seduto lì, senza fiatare. Credevano fosse un metodo, gli altri della compagnia o i critici a cui lo raccontavo per dargli qualcosa da scrivere. Invece, in quegli interminabili centottanta minuti, cercavo disperatamente una scusa per non farlo. Era il mio cavallo di battaglia, ma mi aveva svuotato. Non trovavo mai una scappatoia credibile: ero puntualmente condannato al palcoscenico”» (Sansonna). Parallelamente, Bucci continuò però a prestare il proprio volto anche ad alcune produzioni televisive (La piovra, I promessi sposi, La dottoressa Giò, L’avvocato Guerrieri) e cinematografiche. «Tra le ultime interpretazioni, quella dell’intellettuale di sinistra (Caterina va in città, 2003, di P. Virzì), dell’ebreo facoltoso (Lezioni di volo, 2007, F. Archibugi) e di Franco Evangelisti per Il divo (2008), ritratto di Giulio Andreotti e delle forme del potere firmato da P. Sorrentino» (Canova). Allontanatosi per qualche tempo dalle scene a causa di problemi personali, negli ultimi anni è riapparso sia al cinema sia in teatro. «Dopo anni di oblio dalle scene e dai set – solo un paio di apparizioni da quando, nel 2008, interpretò Franco Evangelisti nel Divo di Sorrentino –, Flavio Bucci ha recitato di nuovo in un film che in qualche modo è anche autobiografico. “Autobiotragico”, mi corregge ridendo: “Il protagonista è un uomo normale che insegue il sogno di fare l’attore, anzi che vive in esso, perché il sogno non è affatto un sogno, è quello che lui è veramente. È esattamente ciò che penso della vita e del mio lavoro: anche io sento di ‘essere’ fino in fondo solo quando lavoro”. […] Un […] ossimoro, visto che il sognatore a occhi aperti de Il Vangelo secondo Mattei, commedia ambientalista girata in Lucania, è un pensionato di Matera teoricamente più ordinario di un borghese piccolo piccolo» (Marco Bracconi). Al palcoscenico è tornato, da ultimo, nel gennaio 2019, con E pensare che ero partito così bene…, «testi suoi e del regista Marco Mattolini, con accanto Almerica Schiavo e Alessandra Puglielli (e anche il figlio Ruben). Mattolini spiega che Bucci ha interrotto il suo buen retiro per ripercorrere i suoi alti e bassi, e riaffrontare quattro momenti del suo repertorio: Riccardo III di Shakespeare, Uno, nessuno e centomila di Pirandello, Diario di un pazzo di Gogol e Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere di Leopardi. […] Un’emozione in scena? “L’ho avuta col Diario di un pazzo: magia pura, dove tutto è possibile”» (Rodolfo Di Giammarco). «Mi auguro di dire tutta la verità. E anche tutte le bugie» • Nell’ottobre 2018 al Festival del Cinema di Roma è stato presentato Flavioh. Tributo a Flavio Bucci, documentario-confessione diretto da Riccardo Zinna, morto di cancro a sessant’anni poche settimane prima della proiezione • Da qualche anno, in seguito a varie traversie, Bucci risiede in una casa-famiglia a Passoscuro, sul litorale romano, nei pressi di Fregene. «Casa non ne ha più, e famiglie ne avrebbe – due ex mogli, Micaela e Loes, tre figli, Alessandro, Lorenzo e Ruben, mamma Rosa che a 93 anni [nell’ottobre 2018 – ndr] ancora si raccomanda “fiulin, comportati bene” –, ma uno dopo l’altro sono dovuti scappare perché “non è stato facile starmi vicino, alcuni hanno resistito e altri meno: si vede che era il mio destino”, e l’unico che tiene duro è il fratello minore Riccardo, esile e timido, che l’ha tirato a riva dopo il naufragio tra alcol, sonniferi, solitudine e depressione e lo accudisce, pure lui però tenendosi a distanza di sicurezza, come da un cavo elettrico scoperto. […] “Per fortuna ho speso tutto in donne – manco tanto, ché me la davano gratis –, vodka e cocaina. Scarpe e cravatte che non mettevo mai. Mi sparavo cinque grammi di coca al giorno, solo di polvere avrò bruciato 7 miliardi. L’alcol mi ha distrutto? Mah, ha mai provato a ubriacarsi? È bellissimo. Lasci perdere discorsi di morale, che non ho. E poi, cos’è che fa bene? Lavorare dalla mattina alla sera per arricchire qualcuno? Non sono stato un buon padre, lo so. Ma la vita è una somma di errori, di gioie e di piaceri. Non mi pento di niente: ho amato, ho riso, ho vissuto. Vi pare poco?”» (Giovanna Cavalli). «“La verità è che gli affetti mi mancano, mi manca quel sistema di normalità che è la nostra quotidiana recita ma anche una parte così importante della vita”. Quando parla dei figli e confessa di non essere stato un buon padre si incupisce per un attimo, la voce scende di un’ottava e una tristezza fuggente si accende su quel viso tutt’occhi e tutto naso: “Questa è una cosa che mi pesa, molto più di aver perduto il denaro o il successo: tanto, a quelli non ho mai dato grande importanza. Solo che quando ci penso finisco per arrivare sempre alla stessa conclusione, che ognuno è quello che è: è uguale per tutti, e si chiama vivere”» (Bracconi) • Fumatore accanito (50-60 sigarette al giorno). «Mi fanno male? Bah, c’è una sola cosa che ti uccide, però non lo sai mai prima, quale sarà» • Ha dichiarato di soffrire della sindrome di Korsakov, «russa come la vodka a ettolitri che gliel’ha procurata. […] Una patologia che ti intacca la memoria. E si rischia, per colmare i vuoti, di ricorrere gradualmente a invenzioni allucinatorie. “Non ricordo nemmeno una riga. Una volta mandavo a memoria copioni e sceneggiature, non sbagliavo un colpo. In scena o sui set ero sempre lucido: dopo, cominciavo le mie smisurate notti bianche”» (Sansonna) • «Come sei arrivato ai paradisi artificiali della cocaina? “Presto detto. È successo al Derby, il mitico locale della Milano ‘da bere’. Lo zio di un personaggio famoso […] cominciò una volta a metterne un poco su un 33 giri, una striscia circolare. Il disco andava, andava, e puoi capire. 5 grammi ogni volta di coca e una bottiglia di vodka”» (Aldo Colonna) • «Nasco e morirò comunista. Però ho sempre avuto grandi, preziosi amici tra i democristiani. E, in fondo, guardiamoci in faccia, in Italia è andata meglio così. Siamo stati liberi, democratici e cristiani. Pensa se finivamo come una dittatura totalitaria tipo quelle dell’Est. Come in Bulgaria, in Romania: spiati, coi militari dietro il culo. Andreotti, a modo suo, ci ha salvati. Io ero diventato pure amico suo. Poi, nel Divo ho interpretato il suo lacchè personale, Evangelisti, quello a cui Caltagirone chiedeva sempre: “A Fra’, che te serve?”. Gli piaceva come leggevo le sue poesie. Che a me, poi, facevano schifo. Versi orrendi, non me ne ricordo neanche uno. Ero diventato, però, il lettore ufficiale: una volta le lessi anche davanti a Giovanni Paolo II. Mi portai un trucidissimo operatore romano, armato di Arriflex, per avere un ricordo. Mentre mi stavo genuflettendo per baciargli la mano, dopo la lettura, quell’animale grida: “Stooop! Ce sta un problema, Santità: er bianco spara”. “Mettice un filtro, stronzo”, gli digrigno nell’orecchio, scusandomi con uno sbigottito Woytila» • «Lei è religioso? “Come diceva Ligabue: ‘A volte ci credo, a volte non ci credo’. Però mi hanno insegnato il valore del segno della croce”» (Alessandro Ferrucci). «Ogni volta che andavo in scena – stiamo parlando di teatro, ovviamente, solo di teatro –, prima di entrare in palcoscenico mi facevo il segno della croce. Ma mi accorgo che era una specie di scongiuro, un portafortuna, come un altro potrebbe toccare un cornetto o portare con sé un amuleto» • Tra i suoi migliori amici, in passato Ugo Tognazzi (1922-1990), oggi Alessandro Haber • «Con Alberto Sordi, sul set del Marchese del Grillo di Monicelli (1981) dov’era don Bastiano, non scattò simpatia: “No, no, mi stava proprio sui co…ni. Ogni giorno, mentre pranzavo nel camper, bussava il suo assistente. ‘Chiede Alberto se t’avanza qualcosa per i cani’. ‘Niente, digli che mi so’ mangiato pure le ossa’”. Per allenarsi fa pure il doppiatore: è lui Tony Manero ne La febbre del sabato sera. “Mi presentano a Travolta: ‘Vedi, John, lui è la tua voce italiana’. E io: ‘Ma sarà lui che è la mia faccia americana’”. Con Michele Placido e Stefano Satta Flores produce Ecce Bombo di Nanni Moretti: “Primo piano su di lui. Dopo 45 ciak mi chiede: ‘Ma tu come la faresti, questa inquadratura?’ (lo imita: è uguale). ‘Uh, ma fa un po’ come ti pare’. Tipo noiosissimo”» (Cavalli) • «Ho smesso di andare al cinema quando hanno proibito di fumare in sala». «Se poteva fumà, se poteva scopà, oggi ar cinema nun se pò fa un cazzo, e checcevado affà! Ma, mi chiedo, tutto ’sto salutismo dove ce porterà? Ma quanto cazzo vuole campà, male, laggente?» • «Quando si ha a che fare con Bucci, si parte sempre con un’impressione antipatica. Fin dalle primissime battute sembra che questo infaticabile attore interpreti tutto allo stesso modo, che non distingua tra dramma, commedia, farsa. Per lui ogni personaggio, ogni situazione, ogni sentimento sembra sottoposto a un trattamento vocale che passa invariabilmente dall’adenoideo al golesco, con variazioni più da tamburo che da violino. […] Però accade un fenomeno singolare. Succede […] che la sua parlata, senza perdere mai la propria caratteristica, si metta a vibrare spezzandosi come un suono dodecafonico. […] Bucci condensa uno stile, e fa centro» (Osvaldo Guerrieri). «Gli occhi da rondone, cerchiati da antiche occhiaie, saettano ancora. Il barbiglio s’è ingrigito, e la rabbia folle, tratto distintivo della sua attorialità, sembra covare sotto la cenere. […] Un diavolo buono, vagamente malinconico, generoso di racconti con chi gli si avvicina» (Sansonna) • «A Ligabue sono molto legato. È stupido, come fanno alcuni, rinnegare un film che ti ha dato popolarità e consentito di fare tanto altro. Il ruolo del cuore, però, resta Total de La proprietà non è più un furto, perché fu la mia prima volta da protagonista e perché era diretto da Elio Petri, il mio maestro». «Da lui ho imparato che, se il cinema ha un senso, è quello di poter intervenire sulla realtà, di prenderla e metterla in relazione con il passato. Se non hai memoria, non hai nulla: puoi anche fare il film più bello del mondo, ma non avrai mai un testo. E, se non hai un testo, non hai nulla da dire. […] Il lavoro è sempre stato il mio modo di partecipare alla vita civile, l’occasione per le occasioni di dialogo». «L’onestà intellettuale […] è la sola cosa che conta: non sei umano fino in fondo se non sei intellettualmente onesto» • «Se qualcuno gli parla di rimpianti, Bucci si stringe nel cappottone. “Nemmeno uno. Anzi, sì: non aver mai comprato un sax a mio padre, che non ne ha mai avuto uno suo. Faceva il rappresentante di materiali per l’edilizia, ma aveva un’anima da artista, amava la musica: non solo mi ha lasciato fare l’attore, ma si è anche trasferito a Roma per starmi vicino, e non si perdeva nulla, dei miei spettacoli. Era molisano, di Casacalenda. Infatti io parlavo come lui, quando ho fatto Ingravallo, per la Rai, in un Pasticciaccio televisivo. Dicevo che la vita è complessa, piena di gnommeri, di concause. E avevo ragione: adesso sono qui, è andata così. Punto, punto e virgola, punto e a capo. Vorrei solo lavorare ancora, per sentirmi ancora vivo. Del resto, come dice Pasternak, ‘la vecchiezza è una Roma senza burle e senza ciance, che non prove esige dall’attore, ma una completa, autentica, rovina’. Toh, questa me la sono ricordata perfettamente!”» (Sansonna) • «Sono salito sul carrozzone senza pensarci più di tanto e sono ancora qui, vi piaccia o meno. Non pretendo di dare lezioni né di riceverne. […] “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”. Lo ha detto Shakespeare, mica io». «Lo spettacolo […] è il mio pane quotidiano, l’unico che abbia mai mangiato, e non voglio smettere. O, almeno, il più tardi possibile». «Il progetto è uno: continuare a lavorare, sempre, che è poi vivere» • «Siamo in ogni caso tutti vinti, nessuno escluso, e il mondo va avanti lo stesso senza ciascuno di noi. Sempre meglio esserci, intendiamoci. Io non mi sento affatto portato per la morte. Al contrario, mi piacerebbe molto lavorare con un trentenne, incontrarmi e scontrarmi con qualcuno che sia profondamente diverso dalla mia generazione. […] “Cercasi Susan disperatamente”, ecco chi sono io. Cercasi disperatamente la vita, come ho sempre fatto». «Cosa vorrei per il futuro? Continuare infinitamente a cazzeggiare. L’ho fatto per tutta la vita: perché fermarmi proprio adesso?».