Corriere della Sera, 23 maggio 2019
Il Guggenheim guarda al futuro
Sei artisti in cerca di una collezione. O, meglio, sei artisti che si scoprono l’animo del curatore per reinterpretare, rinnovare e in qualche modo stravolgere la collezione di un museo. Non di un museo qualsiasi, ma piuttosto di uno dei simboli del sistema museale moderno-contemporaneo ovvero il Guggenheim di New York, quel Guggenheim che ha appena compiuto i suoi primi sessant’anni (era stato inaugurato il 21 ottobre 1959) ben riassunti nel «guscio» senza tempo da Frank Lloyd Wright. Artistic License, la mostra che si inaugura questa sera (l’apertura al pubblico è prevista per domani, venerdì 24) in uno spazio museale che negli ultimi anni ha saputo ospitare felicemente gli eccessi di Cattelan e la (necessaria) riscoperta del Futurismo italiano, propone stavolta di guardare al museo come a un luogo di connessioni non più solo artistiche, ma come un laboratorio dove è ancora possibile far scattare quella scintilla capace di cambiare la società.
Così, proprio mentre poco lontano il Whitney propone la sua Biennale anno 2019, il Guggenheim affida per la prima volta nella sua storia a un gruppo di maestri vecchi e nuovi (Cai Guo-Qiang, Paul Chan, Jenny Holzer, Julie Mehretu, Richard Prince, Carrie Mae Weems) il compito di guardare al futuro cominciando dall’anima del museo ovvero dalla collezione (più di 1.700 opere di 625 artisti). Per la prima volta, oltretutto, il museo ha diviso letteralmente la propria spirale in sei sezioni, una per ogni artista-curatore.
Sono più di 300 le opere esposte all’interno della Rotonda del Guggenheim, in pratica un piano per ogni artista-curatore (ognuno dei quali era già passato dal museo con una monografica dedicata): capolavori tutti appartenenti alla collezione del Guggenheim, lavori già molto noti (l’installazione Virgin / Jungfrau di Joseph Beuys, Le Chien di Hilla Rebay) accanto a opere meno celebri e in qualche caso mai esposte prima (Evening 9:10, 461 Lenox Avenue di Romare Bearden, First bathroom / Woman Kneeling di Laurie Simmons). Un percorso circolare che è anche frutto della riuscita collaborazione tra artisti, curatori, conservatori. Una circolarità che sempre più spesso rappresenta uno dei caratteri delle Biennali d’ultima generazione. Dalla Biennale di Venezia ora in corso arriva tra l’altro Martin Puryear, autore della scultura Bask (scelta da Carrie Mae Weems) e curatore del padiglione americano 2019.
Superata la grande Rotonda del Guggenheim, oltre una spirale di un sorprendente rosa pallido (Pantone lo identifica tecnicamente come «Coral Rose 169U») si comincia con il cinese Cai Guo-Qiang (1957), l’artista che ha scelto fuochi d’artificio e polvere pirica per dimostrare come l’arte sia in grado di stravolgere fisicamente la società. Ed è subito sorpresa: una sala ricca, affollata perché le due Figures di Willem de Kooning, la veduta di Amsterdam dalla finestra di Kandinsky o la fantastica Natura morta con corda, martello e cazzuola di Rothko non hanno niente di astratto come sarebbe da aspettarsi da maestri «del genere» (molto belle anche le tre gouache di Giacomo Manzù tra i prescelti anche di Paul Chan). Raccontano piuttosto un cambio di prospettiva a cui non si sottrae neppure lo stesso Guo-Qiang che accanto alle recenti riletture di Kline e Rothko propone un suo lavoro giovanile molto convenzionale come Donghu Village (1978). Quasi che ogni curatore-artista volesse essere complice di chi ha scelto.
Quella della complicità, una complicità che supera i confini del tempo e dello stile, è infatti un’altra delle possibili chiavi interpretative di questa mostra. Una complicità che si ritrova passando al livello successivo, stavolta giocato sull’azzurro, affidato al più giovane degli artisti, Paul Chan (Hong Kong, 1973), grande manovratore di videoinstallazioni e immagini che senza paura allinea attorno al tema dell’acqua e del corpo la moderna classicità del Piet Mondrian di Summer, Dune in Zeeland e l’inquieto quotidiano di Julie Simmons. Una complicità tra curatori che si ritrova puntuale nelle proposte di uno storico maestro come Richard Prince (1949) che volendo andare al cuore della collezione del Guggenheim ha scelto lavori davvero ben poco convenzionali. Come quelli di Stuart Sutcliffe (tra i fondatori dei Beatles) o come un Pollock «non ufficiale» siglando la sezione forse più accademica della mostra.
Ma negli anni del movimento «MeeToo» sembra però essere stato ancora una volta affidato alle donne il compito di raccontare (e dimostrare) la possibile circolarità di un’arte capace di confrontarsi senza tante divisioni «di genere» o di stile con la società, difficoltà e drammi compresi. I momenti più forti di Artistic License arrivano così da artiste come Julie Mehretu (Addis Abeba, 1970) o come le americane Carrie Mae Weems (1953) e Jenny Holzer (1950). Mehretu, oltre a certificare quel Rinascimento africano testimoniato anche dalla Biennale di Venezia, sceglie di raccontare ansie, traumi, distopie del contemporaneo assemblando Dubuffet, Matta e David Hammons e un’icona assoluta e universale come i Three studies for a Crucifixion (1962) di Francis Bacon. Carrie Mae-Weems si confronta a sua volta con l’idea di un «bianco-nero» capace di nascondere (grazie a Rothko, Beuys) un universo di sfumature. Mentre a Jenny Holzer va il difficile compito di chiudere anche fisicamente questo viaggio al centro del Guggenheim: per lei solo donne, donne geniali e ispirate come Lee Bontecou, Louise Nevelson (sua la magnifica Luminous Zag: Night del 1871), Adrian Piper e Chryssa. Capaci sempre e comunque di superare limiti e confini. Nel nome e sotto il segno dell’arte.