Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  maggio 23 Giovedì calendario

Romania, salari da fame per chi lavora nella moda

«Made in Romania» è il marchio che appare spesso sui capi di abbigliamento venduti nei nostri negozi. L’equivalente europeo al «made in China». Una manifattura a basso costo che si basa sul lavoro di circa mezzo milione di persone. A denunciare le condizioni di questi lavoratori, chiedendo all’Europa di introdurre salari minimi per tutti, la «Clean Clothes Campaign» che ha ’studiato’ il settore negli ultimi sei anni. Le principali destinazioni di esportazione dell’abbigliamento «made in Romania» sono l’Italia, il Regno Unito, la Spagna, la Francia, la Germania e il Belgio. I marchi spaziano da discount e aziende di fast fashion a marchi del lusso di alta gamma, tra cui Armani, Aldi, Asos, Benetton, C& A, Dolce & Gabbana, Esprit, H& M, Hugo Boss, Louis Vuitton, Levi Strauss, Next, Marks & Spencer, Primark e Zara (Inditex). Con quasi diecimila fabbriche e laboratori, la Romania rappresenta a uno dei paesi di produzione storici per i marchi di moda dell’Europa occidentale. Da più di un decennio l’industria dell’abbigliamento del Paese soffre di una drammatica carenza di manodopera, a causa delle condizioni di lavoro pessime. I lavoratori considerano i salari bassissimi del settore (si parla di 150 euro al mese) come il problema più grave: la paga media dei lavoratori intervistati è pari solo al 14% del salario di- gnitoso, vale a dire quello considerato necessario per vivere. Si tratta di una cifra spesso inferiore al salario minimo legale (che in Romania è solo il 17% di quello dignitoso). Molti dei lavoratori intervistati hanno riferito di essere costretti a contrarre prestiti per far fronte alle spese quotidiane, come quelle di riscaldamento in inverno o per le spese mediche.
Oltre a contrarre debiti, i lavoratori e le loro famiglie sopravvivono grazie all’agricoltura di sussistenza e ai soldi che vengono inviati dai membri della famiglia che si trasferiscono all’estero. L’Italia, insieme alla Francia, è una delle mete più gettonate.
Oltre ai salari da fame, i lavoratori riferiscono di ore di lavoro straordinario non retribuito, così come di ventilazione e aria condizionata non funzionanti in un Paese dove le estati possono essere roventi. La ricerca ha riscontrato anche casi di straordinari forzati e di accesso limitato o mancato all’acqua. Tutti i lavoratori si sono lamentati di essere vittime di bullismo, di essere maltrattati verbalmente, mo-lestati e minacciati di licenziamento. Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti, membro italiano della «Clean Clothes Campaign» sottolinea come spesso i marchi del tessile «si vantino di portare lavoro in quei Paesi in cui ce n’è bisogno e di offrire soprattutto alle donne una strada per uscire dalla povertà. La nuova ricerca dimostra che lavorare per i marchi della moda occidentali non costituisce una via di uscita dalla povertà, piuttosto favorisce la contrazione di debiti per sopravvivere ed è causa di separazione delle famiglie». Nessuno dei marchi che si rifornisce in Romania, secondo l’associazione, si è impegnato seriamente ed efficacemente contro le violazioni dei diritti umani e del lavoro nel Paese. «È giunto il momento che l’Unione Europea introduca norme vincolanti sui diritti umani lungo le catene di fornitura e affronti le grandi disuguaglianze all’interno del continente – aggiunge Lucchetti –. In una parte, quella occidentale, i salari minimi legali sono a prova di povertà, nell’altra sono addirittura al di sotto della soglia di povertà stabilita dall’Unione Europea».