il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2019
Dolan e la precoce sindrome di Peter Pan
Mancano solo quattro titoli, tra cui Il traditore di Marco Bellocchio che passa oggi, per completare il Concorso tutt’altro che eccelso di Cannes 72, e in attesa del palmarès Once Upon a Time in Hollywood di Quentin Tarantino finisce sul podio della critica. Quello che Leonardo DiCaprio definisce “una lettera d’amore a tutti gli outsider dell’industria cinematografica” e Brad Pitt un apologo “sulla perdita dell’innocenza che gli omicidi della Manson Family hanno rappresentato” ha polarizzato i giudizi: chi gli commina zero stellette, chi gli prenota la Palma, sicché nella griglia di Screen Daily si piazza per gradimento al terzo posto (3.0 su 4) dopo Dolor y gloria di Pedro Almodóvar (3.3) e Portrait de la juene femme en feu di Céline Sciamma (3.2).
Non dovrebbe sconvolgere queste posizioni Matthias & Maxime, nuova prova del figliol prodigo Xavier Dolan, tornato sulla Croisette dopo qualche lacrima e l’autoesilio a Venezia. Il trentenne regista québécois fa baciare gli eponimi amici d’infanzia per gioco, anzi, per un filmino amatoriale e poi sta a guatare le conseguenze relazionali, lavorative e personali. Maxime, vistosa voglia sul viso e Australia nell’immediato futuro, lo interpreta egli stesso, con fastidiose smorfie e risparmiabilissimi ammiccamenti, ma ancor più nociva è la sensazione che il suo cinema si stia rimpicciolendo, che l’architettura poetica si stia riducendo a design d’interni, e non sempre psicologici. L’ex enfant prodige palesa una precoce sindrome di Peter Pan: ci sta che lui non voglia crescere, meno che non lo faccia il suo cinema, puerile, minimo più che minimalista e, di questo passo, condannato all’irrilevanza.
Decisamente meglio Roubaix, une lumière del francese Arnaud Desplechin, che ispirandosi a Il ladro di Hitchcock trova atmosfere, colpe e tare à la Simenon: l’ispettore capo Daoud (Roschdy Zem, perfetto) ama i cavalli da corsa e indaga su auto bruciate, rapine e vecchie strangolate, ma lungi dall’essere un genere il crime qui è uno stato d’animo. Trattenuto nella forma, esistenziale nel voltaggio, morale nel deposito, questo polar eterodosso rischia di essere sottovalutato, e sarebbe oltremodo disdicevole: Léa Seidoux incarna una derelitta con licenza di bere e non solo, Desplechin fa della meta della classica di ciclismo un territorio accidentato dalla miseria e dalla turpitudine, ma riesce a tenere accesa la luce alla speranza.