il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2019
«Salvini fa gli errori di Renzi». Parola di Pagnoncelli
L’ultimo saggio di Nando Pagnoncelli – presidente di Ipsos, uomo di numeri per nulla sprovvisto di humour, in questi giorni affaccendatissimo con gli ultimi eurosondaggi – s’intitola La penisola che non c’è. La realtà su misura degli italiani (Mondadori) e racconta la visione distorta di un Paese.
Professore, quali sono gli indicatori di questa stortura?
I più scontati sono la percezione di immigrazione e disoccupazione. Ma anche su altri argomenti il pre-giudizio italico è alto. Quando chiediamo quanti sono i diabetici (il 5 per cento), la risposta media è 35 per cento (vorrebbe dire che uno su tre soffre di diabete). C’è un’implicita attitudine ad amplificare i fenomeni.
E sui migranti?
Quando abbiamo iniziato questa ricerca, nel 2014, avevamo il 7 per cento di migranti. E gli italiani ci dicevano che erano il 30 per cento dei residenti in Italia. Ora la forbice si è un po’ ristretta perché i migranti sono il 10 per cento della popolazione e l’ultima rilevazione è al 26.
Disoccupazione.
Secondo gli italiani il 48 per cento dei cittadini è senza lavoro. Quasi uno su due. Stessa cosa sugli inattivi: sono il 25%, ma gli italiani credono che siano il 50 per cento. Il doppio.
E gli altri Paesi?
Oggi facciamo questa ricerca in 40 Paesi, ma se prendiamo quelli presenti sin dal 2014 siamo primi nella “distorsione percettiva” o più banalmente nell’indice di ignoranza. E questo dipende da molti fattori, in primis da una scolarità bassa. Fatto 100 il numero dei maggiorenni, il 56 per cento ha raggiunto la terza media. Il numero dei laureati è basso, 14 per cento. Guardando le statistiche dell’Ocse, siamo al terzultimo posto e abbiamo un tasso altissimo di analfabetismo funzionale.
Altri fattori rilevanti?
Daniel Herda, psicologo sociale americano, sostiene l’esistenza di una sorta di analfabetismo numerico legato alle emozioni: quando siamo di fronte a qualcosa che ci spaventa, inconsapevolmente siamo portati a dilatare la portata del fenomeno. Un terzo aspetto, serissimo, riguarda la dieta mediatica, cioè il modo in cui i cittadini s’informano.
La televisione tiene, il web esplode e la stampa muore…
Più o meno. I dati del Censis ci raccontano il cambiamento tra il 2007 e il 2017: la tv mantiene una forte centralità, la radio è in crescita come ovviamente Internet, la stampa cala in maniera molto significativa. E questo ha delle conseguenze perché la carta stampata è quella che induce a maggiore riflessione su una notizia. Il telegiornale di prima serata è la fonte prevalente di informazione, ma un servizio dura al massimo un minuto e mezzo. Un barcone stracolmo di migranti restituisce l’idea dell’invasione, anche se in realtà sappiamo che non è così perché gli sbarchi sono in calo dal secondo semestre del 2017. Sappiamo anche che gli omicidi in Italia sono meno della metà di vent’anni fa. E sono meno della metà di quelli che vengono commessi in un anno a Chicago, una città di due milioni e settecentomila abitanti…
I nostri leader sono bravi comunicatori?
Il primo tema è l’iper-semplificazione e la ripetizione del messaggio. Berlusconi per esempio conosceva molto bene il marketing e la struttura della popolazione italiana. Mi è capitato di sentirmi dire da alcuni politici di sinistra – evidentemente avevano in testa un Paese diverso – che i laureati sono il 30 il per cento degli elettori. Questo spiega perché Berlusconi semplifica il linguaggio.
Esempio?
Si ricorda il dibattito tv tra Prodi e Berlusconi? Il primo promise di abbattere il cuneo fiscale, il secondo, guardando in camera disse “Avete capito bene? Vi tolgo l’Ici”. Sono due concetti con un diverso livello di immediatezza. Ricordiamoci che Berlusconi fu ridicolizzato perché aveva fatto una campagna elettorale in crociera. Ma dai nostri dati risultava che la crociera era la vacanza ideale per una significativa fetta di italiani, con un profilo socio demografico che corrispondeva all’elettorato berlusconiano.
È giusto che la politica insegua i sondaggi?
No, produce rischi enormi. Attenzione: l’opinione pubblica è ondivaga, impreparata e spesso ostaggio dei pregiudizi.
Salvini sta esagerando? È ovunque.
Guardiamo la parabola di Renzi: nella sua fase iniziale poteva dire tutto e il contrario di tutto ed era apprezzato perché decisionista. Alla fine è diventato, per le stesse persone, un accentratore egoriferito. Il troppo stroppia e vale anche per Salvini.
Zingaretti ha adottato un profilo basso.
Come Gentiloni: uno dei pochi premier a partire basso nei sondaggi, all’indomani del referendum, ma che poi ha recuperato proprio perché la gente era stanca di polemiche e urla. Questo sta succedendo anche ora: troppa aggressività viene vissuta come una battaglia di potere a scapito dei cittadini.
Di Maio è più in difficoltà?
Il Movimento 5 Stelle è un catch all party, ha un elettorato trasversale. Condizione ottimale per chi sta all’opposizione, mentre quando si è al governo le decisioni sono destinate a scontentare qualcuno. C’è poi il confronto con Salvini, il cui protagonismo dà l’idea di sovrastare l’altro vice premier. La Rete non è un universo chiuso, ciò che un politico comunica nei social viene ripreso dagli altri mezzi. La Rete da sola non può bastare, così come da sola la presenza territoriale. Salvini ha adottato un mix efficace.
Come fa a essere popolare Conte e in contemporanea a esserlo Salvini? Sono uno l’opposto dell’altro.
È una delle nostre ambivalenze. Una parte di italiani si riconosce negli atteggiamenti anticonvenzionali, a tratti aggressivi, di Salvini e Di Maio: finalmente qualcuno che parla come parlerei io. Conte si comporta esattamente all’opposto e incarna la figura garante del contratto, che è fondamentale per entrambi gli elettorati perché l’idea del compromesso fa digerire decisioni non gradite ma che sono controbilanciate da altre in linea con le proprie idee. Poi parla in modo composto e pacato, si veste bene, ha la pochette e fa il baciamano. Non ultimo: si presenta bene nei consessi internazionali. Premier e vicepremier hanno profili complementari che appagano le aspettative ambivalenti di una larga parte dei cittadini.