Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  maggio 23 Giovedì calendario

Intervista al fotografo Adam Broomberg

Il presente sfugge alle immagini, non resta più impresso sulla pellicola, non si ferma tra i pixel digitali. Sfugge. Gli artisti Broomberg&Chanarin cercano di riacciuffarlo senza limitarsi a quel che si vede, creano digressioni per ristabilire il fuoco. Hanno indagato la relazione tra i colori e le razze scompigliando il sistema, hanno sbiadito la guerra, giocato a scacchi con Brecht. 
Dietro la pluripremiata etichetta si nascondono due fotografi sudafricani che vivono tra Londra e Berlino. Uno dei due, Adam Broomberg, stasera (ore 19) è a Camera, al centro italiano per la fotografia di Torino, protagonista di una lezione a cui seguirà un workshop: «Sono preoccupato, non so se la fotografia ha ancora un reale impatto in questo tempo. È successo prima con le parole, ora con l’immagine: non sanno più catalizzare il cambiamento».
Le foto non sono per definizione testimoni del tempo?
«Sono parenti della realtà, non sono oggettive. Si parla di una forma d’arte e di potere, al massimo una brutta copia della realtà. Ora per definire il presente dobbiamo smontarlo e parlare di futuro. Subdolo ma vero».
Quale futuro?
«Paesaggi apocalittici, distopia: vagheggiamo di una terra bruciata che ci aspetta e in realtà ci abitiamo. Succede adesso. Ci infuriamo se qualcuno spiega che è già tardi, se invece ci raccontano di un mondo a venire, allora ascoltiamo. Un meccanismo che mi incuriosisce».
Diventerà materiale per un vostro lavoro?
«Tempo fa abbiamo realizzato un progetto sui rifugiati libici. Eravamo su una barca, intorno a noi sono state salvate dal mare 600 persone e molti di loro erano migranti climatici. Diamo la colpa all’economia e invece non è più il solo fattore che spinge alla fuga».
Le foto che avete realizzato lì non catturano la paura?
«Sì, ma non più nel modo a cui siamo abituati. Fino a dieci anni fa il fotogiornalismo portava le notizie in casa, oggi la gente consulta i social e quelli propongono fonti infinite, senza controllo. Si guarda quello che sembra. Solo che non è casuale, c’è sempre qualcuno che gestisce il flusso, che costruisce le fake news e le diffonde. Sono gli stessi che controllano i soldi. E in questo circuito la foto è diventata infedele. Non è successo all’improvviso, è stata creata una società predisposta a crederci e voi italiani dovreste saperlo».
Siamo stati noi?
«È stato il berlusconismo. Ho vissuto a Venezia dal 1995 al 2003, i suoi anni d’oro. Lui ha lasciato un’impronta precisa, ha sintonizzato tutti o quasi sulla stessa lunghezza d’onda, ha creato un controllo mediatico che poi altri hanno raffinato. E lo ha esportato. Scappo da Venezia e vado a Londra ed ecco la Brexit, mi trasferisco a Berlino e le destre tornano a circolare. È nell’aria. Lo chiamiamo populismo, solo che è sempre più tossico».
Come se ne esce? Dove si trova la verità?
«Non so che cosa sia la verità, non puoi sigillarla in uno scatto: è complessa, pretende dei punti di vista e noi questo facciamo: ne offriamo uno. La fotografia è un mezzo maldestro, non è affidabile».
In certi casi avete scelto di mostrare quello che sta fuori della cornice. Una foglia vicino a un disastro.
«Non puoi capire le cause delle ferite mostrandole. Abbiamo visto tutto, non ci impressioniamo più. Serve un’altra strada per scatenare le emozioni e le riflessioni».
Siete stati embedded in Afghanistan e siete tornati senza un solo scatto.
«Siamo tornati con The day nobody died, l’effetto di una pellicola esposta al sole per 20 secondi: una negazione. Non c’è immagine reale che sfugga al controllo militare».
Le persone hanno così sete di guardare che spiano nella vita altrui su ogni social.
«Stiamo dialogando con una gola profonda che lavora per Facebook come censore. Un uomo costretto a fissare tutto quello che fa scattare un allarme: stupri, pedofilia, violenza. È come Arancia meccanica, è orribile. Lo abbiamo conosciuto per l’editing di una serie di espressioni troppo violente o troppo pacifiche, facce che non puoi mettere o non funzionano su Internet».
Avete mostrato anche ritratti usciti dal riconoscimento facciale.
«Sì, in Spirit is a bone mostriamo volti composti dal programma di riconoscimento di Mosca, c’è anche una Pussy Riot. Con questo sistema sembriamo tutti criminali».