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 2019  maggio 23 Giovedì calendario

I veri danni provocati dagli 80 euro

Il governo è determinato a «riassorbire» il bonus 80 euro, accusato, non da oggi, di essere mal disegnato. La misura simbolo del governo Renzi conta per «dieci miliardi di spesa e non dieci miliardi di riduzione della pressione fiscale», ha detto ieri il viceministro Garavaglia alla Stampa. La questione è stata oggetto di un ampio dibattito ma, forse, non è davvero il tema più rilevante.
Fra qualche anno, sarà evidente come proprio gli 80 euro abbiano segnato l’inizio di un’epoca. Le manovre finanziarie del periodo 2011-2013, in un contesto reso particolarmente difficile dalla crisi, avevano come obiettivo il raggiungimento a breve del pareggio di bilancio. Ridurre il deficit in periodo di crisi è particolarmente difficile, a causa dei cosiddetti «stabilizzatori automatici» che, avendo l’ambizione di compensare l’andamento del ciclo economico, portano ad aumenti di spesa. La politica ha chiesto sacrifici (per quanto non sia mai stato in discussione il perimetro dello Stato, la somma delle iniziative che esso deve o non deve intraprendere) ma soprattutto ha messo il freno alla moltiplicazione delle promesse e degli impegni. 
Con gli 80 euro, il dibattito è tornato a incentrarsi sulle opportunità di spesa. Il migliore argomento a favore del reddito di cittadinanza è che costa grosso modo come gli 80 euro. Mezzo punto di Pil è un valore paragonabile alle minori entrate della riforma fiscale di Trump, che pure ben altri effetti ha prodotto sulla crescita.
Il principio che anima ogni riduzione delle imposte è l’idea che i cittadini possano fare un uso migliore delle proprie risorse, che non il governo. Per questa ragione, un taglio fiscale «buono» coinvolge tutte le categorie: l’obiettivo è lasciare più quattrini in tasca a ciascuno. Al contrario, l’identificazione di un segmento di cittadini da premiare con un «bonus» segnala che il governo ha perlomeno una ragionevole aspettativa circa come quei quattrini verranno impiegati. Nello specifico, che immagina che verranno spesi, sostenendo pertanto i consumi.
Lo potremmo chiamare «keynesismo intuitivo»: i soldi «devono girare», e pertanto sta allo Stato metterli in circolo. Ciò presuppone che, dal punto di vista della collettività, il consumo immediato sia meglio dell’alternativa (risparmi che poi consentono investimenti). Il rimedio è coerente con la malattia, se pensiamo che il problema dell’Italia sia che consumiamo poco. La caduta degli investimenti e la dinamica della produttività suggeriscono però che i guai siano ben altri.
Si dice tutt’oggi che gli 80 euro sono stati utili a chi li ha percepiti. Non c’è dubbio. Ma con questo argomento si può giustificare tutto: non c’è uno stanziamento che non aiuti, in qualche modo, il suo beneficiario.
Il danno maggiore, cinque anni dopo lo possiamo dire, è culturale. A lungo la discussione pubblica ha avuto al centro la questione fiscale: qualcuno prometteva di prelevare meno; il governo dei «tecnici» ammise che era necessario prelevare di più. Con gli 80 euro di Renzi si è cominciato a discutere di quanto lo Stato deve mettere nelle tasche degli italiani, o almeno di alcuni di loro. Così si sono riaperte le porte all’idea che si possano offrire pranzi gratis. Che è il cuore di ogni populismo.