la Repubblica, 23 maggio 2019
Quentin Tarantino racconta il suo film
Per i critici anglosassoni è già lanciato nella corsa agli Oscar, per molti europei ha semplicemente sbagliato film. Quentin Tarantino si prende tutta la scena anche quando divide Cannes. Con l’arrivo di C’era una volta a… Hollywood il Festival ha raggiunto il suo acme divistico e autoriale, con la dose inevitabile di polemiche: il film racconta la fine dell’epoca d’oro e la perdita dell’innocenza in un’America che nel 1969, con l’omicidio efferato di Sharon Tate, ha avuto per la prima volta paura per la propria vita. E, come già dimostrato con altri film, Tarantino crede nel potere del cinema di correggere la Storia. Di sicuro è uno dei pochi autori capaci di monopolizzare le domande della stampa anche in presenza di due star del calibro di Leonardo DiCaprio e Brad Pitt. La prima grande questione, quella rimasta in canna da quando, quasi due anni fa, era uscita la notizia: perché un film su Charles Manson? «Siamo affascinati dalla sua vicenda – spiega – perché non riusciamo a comprenderla. Facciamo ricerche, leggiamo libri, ascoltiamo podcast, vediamo speciali in tv. Ma alla fine questa storia resta oscura e misteriosa». Tra le sequenze più riuscite del film, quella allo Spahn Ranch, a nord di Los Angeles, dove si è istallata la comunità di hippie della setta di Manson: «Mi interessava raccontare questa “famiglia” inquietante, volevo mostrare la loro normalità quotidiana con un retrogusto sinistro. Per fare un po’ di soldi portavano i turisti a cavallo nel canyon di Santa Susanna. Erano bravi, ci sapevano fare. A sei anni mamma e papà mi portarono a fare una cosa del genere, mi piace pensare che sia accaduto lì».
Sotto il fuoco di fila delle domande diventa laconico. Ha parlato con Polanski? «No». Il regista polacco alla Croisette ha inviato il suo nuovo film sull’affare Dreyfuss, con Jean Dujardin, per una segretissima proiezione al mercato e non ha mai rilasciato commenti sul fatto che si facesse un film sulla sua tragedia. A Tarantino una giornalista chiede se il personaggio di Sharon Tate-Margot Robbie non sia troppo compresso rispetto a quelli maschili, non avendo quasi alcun dialogo, e lui: «Rigetto la sua domanda». Nel film l’omaggio più bello all’attrice assassinata è quando Robbie-Tate al cinema assiste al vero film che girò con Dean Martin. Nessuna domanda su Weinstein, che ha sempre prodotto Tarantino da Le iene fino al caso molestie. Ma c’è una scena in cui il regista si riferisce alla Hollywood di oggi: lo stuntman Brad Pitt dà un passaggio a una giovanissia hippie che gli si sdraia sulle gambe mentre guida e gli si propone spudorata: “Sei minorenne?”, “No”, “Hai un documento per dimostrarlo? Non voglio finire in prigione per causa tua”. Non scherza quando gli chiedono la sua epoca preferita, «quella in cui non c’erano ancora i telefonini».
Ritrova il sorriso per parlare di cinema italiano. Il protagonista Ricky Dalton (DiCaprio), spinto dall’agente Al Pacino, vola in Italia per girare spaghetti western: «Sergio Corbucci è uno dei più grandi registi, uno dei miei preferiti, il mio Django Unchained rileggeva il suo film. Quando Dalton va a Roma per girare Nebraska Jim diventa parte di quella storia. Lui non li apprezza, ma se io lo incontrassi quarant’anni dopo gli direi: ma davvero hai lavorato con lui?. Poi ho immaginato che dopo quel film Rick abbia girato Operazione Dyn-o-mite! con un altro grande regista, Antonio Margheriti, perché ho pensato che Rick si sarebbe comportato talmente male che Corbucci un secondo film non glielo avrebbe fatto fare».
C’era una volta a... Hollywood — in sala il 19 settembre – è una lettera d’amore all’industria del cinema ma Tarantino non risparmia al pubblico un finale pulp. Fuori dallo schermo, invece, il cineasta sembra uscito da un romanzo di Barbara Cartland: appeso a ogni frase della moglie, la cantante israeliana Daniella Pick, «Mi sono appena sposato, non lo avevo mai fatto prima e ora so perché: stavo aspettando la ragazza perfetta».