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 2019  maggio 23 Giovedì calendario

Colm Tóibín parla del suo cancro

«Hello, my friend!». Come il grillo di una fredda primavera, come un Dorian Gray per niente maledetto, senza scarpe e con le calze a strisce bianche e blu, Colm Tóibín saltella sugli scalini del suo condominio sul Riverside Park, a Manhattan. È in gran forma, gli occhi vispi e rocciosi, i folti capelli grigi intorno alla testa calva, fulge il sorriso alternato alle sue tipiche pause austere. Eppure solo qualche settimana fa il 63enne celebre scrittore irlandese ha pubblicato sulla London Review Of Books uno sterminato e struggente articolo sulla sua lotta contro il cancro. «Ma ti prego», avverte subito, «non chiamarla lotta. Non è una lotta. E tantomeno una battaglia. Ogni giorno, volevo soltanto addormentarmi e svegliarmi quando tutto sarebbe finito».
Tóibín non è Oriana Fallaci, che all’inizio reputava il cancro ai polmoni quasi come la sua ultima guerra. Il suo bivio vitale ricorda più Tiziano Terzani: un distacco tragico ma sereno, contemplativo e però pugnace. Perché lui, l’autore dei bestseller Brooklyn, The Master e Il testamento di Maria, pare liberato dall’insostenibile pesantezza della malattia. «Ho finito la chemio nell’autunno 2018 e ora per fortuna sono pulito. Ma bisognerà controllare di sei mesi in sei mesi», racconta sul divano del suo soggiorno con vista sul fiume Hudson, tra libri, appunti, scartoffie delle sue lezioni alla vicina Columbia University e un gigantesco tomo dal titolo scarlatto: Thomas Mann. «È per il mio prossimo romanzo sullo scrittore tedesco e la sua sotterranea omosessualità».
«Ora ho persino molti più peli su corpo e sopracciglia di quanti ne avessi prima!», fiorisce la voce di Tóibín. «E poi mi accadono cose strane: dopo la chemio e tanti mesi di dolore, ora se vado a un concerto di musica classica le note mi risuonano in testa per giorni, quasi perfettamente. Invece», continua, «durante il trattamento antitumorale in un ospedale privato di Dublino avevo perso gusto, appetito e tutti gli altri sensi. Escluso l’olfatto, che invece, per qualche assurdo motivo, era diventato affinatissimo, come quello di una volpe. La chemio ti scaglia in uno stato quasi primitivo, di pre-civilizzazione, in una dittatura dell’istinto». «Tutto è iniziato con le mie palle», precisa Tóibín, stessa frase di apertura del suo articolo sulla London Review of Books. Cioè con il testicolo destro, che l’anno scorso inizia a fargli male: sarà colpa delle chiavi in tasca. Anzi no, è un idrocele, come suggerisce Google. Infine, la diagnosi e l’asportazione di parte dei genitali: «Volevo iniziare il mio resoconto con un elemento ironico, ma allo stesso tempo tragico». La virilità dimezzata: «Quando l’ho scritto non cercavo commiserazione. Però ci tenevo a raccontare dei miei testicoli perché era il modo più efficace per far comprendere la spietatezza del cancro».
Ciononostante, nelle settimane successive, L’Imperatore del male, come lo chiamò Siddhartha Mukherjee nel libro Pulitzer nel 2011, si estende a parte dei polmoni e del fegato. Serve la chemio. «Nei primi giorni non sento nulla di strano, faccio una vita normale. Poi», prosegue mentre andiamo a cena nell’Upper East Side di New York, «a metà della seconda settimana iniziano i problemi. Perdita di appetito, una debolezza sempre più morbosa, un coma cosciente. A un certo punto, all’improvviso, non riesco più a concentrarmi. Né a leggere, a scrivere o ad ascoltare musica. Non posso fare più nulla. Concentrazione zero. Divento una nullità, intellettualmente e sentimentalmente ».
Di lì in Tóibín emerge la sua voglia di restare solo: «Non ho mai voluto essere un peso per gli altri. Ma, chemio dopo chemio, non riesco più ad andare a fare la spesa. O a uscire dalla piscina, dove resto bloccato. E poi ad abbottonarmi i bottoni della camicia, perché la chemio ti avviluppa le dita. Infine, non riesco più a camminare. Cado al supermercato. Da tempo non mi guardavo più allo specchio: un giorno, per sbaglio, mi capita. Non ho più capelli, sono uno scheletro, sono spaventoso: sembro uscito da un quadro di Egon Schiele».
«Ogni malattia è il frutto della nostra vita, è la “nostra” malattia», diceva Terzani. «Io ho continuato a fare quasi sempre tutto da solo», aggiunge Tóibín, «anche perché l’ospedale, che ringrazierò sempre, a un certo punto non ascolta più i tuoi effetti collaterali. Allora non ho voluto con me nemmeno Hedi, il mio compagno ed editore californiano: non tanto perché non avessi voglia di fare l’amore, mentre invece fantasticavo sul cibo come i kamikaze musulmani con le vergini in paradiso. Ma perché, per come stavo male, non riuscivo a condividere niente con lui». Poi però per Tóibín arrivano le buone notizie, ma anche un fulminante rischio di emboli e trombosi: «Paragonati al più lento ma spietato cancro, sono violenti come Marlowe rispetto a Shakespeare, o come uno smash nel tennis rispetto al gioco da fondo campo, o Macron rispetto a Merkel, o Jackson Pollock di fronte a Barnett Newman». Nuove settimane in ospedale a “sciogliere” il sangue. Ma anche questo è passato.Tóibín non ha voluto pubblicare foto dell’agonia come Christopher Hitchens, non ha scritto un diario della malattia come Henning Mankell e Iain Banks, non si ritrova nella deportazione del Padiglione Cancro di Solgenitsin o nell’unghia incistata nel cervello del padre di Philip Roth in Patrimonio e tantomeno nella voragine tumorale de La carta e il territorio di Houellebecq. Non voleva neanche scrivere l’articolo sulla London Review. Poi è stato convinto dagli amici e dalla stessa rivista. «Ma sia chiaro: io non ho tratto alcuna lezione da questa terribile esperienza. Non mi piace l’idea che serva a qualcosa», sentenzia Tóibín davanti al suo bicchiere di acqua frizzante. «Insomma, io non ho imparato niente dal cancro. Niente. Niente».