Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  maggio 22 Mercoledì calendario

Philip Roth e la scrittura come guerra

«Ho scritto per vedere se ne ero capace», ha detto Philip Roth in un’intervista con Livia Manera, pubblicata su «la Lettura» nel settembre 2017. Era la sua risposta sintetica, icastica, all’interrogativo che dà il titolo a Perché scrivere?, la raccolta di saggi lunga oltre 400 pagine ora in edicola con il «Corriere». Quando morì, il 22 maggio 2018, erano passati 8 anni dall’ultimo romanzo pubblicato, Nemesi, quattro piccoli libri in uno, in cui già la scala della narrazione aveva ridotto la sua portata restringendo la prospettiva e acuendo il conflitto. Eppure, nel 2009, a Tina Brown aveva confessato: «Non mi dispiacerebbe scrivere un lungo libro che mi tenesse impegnato per il resto della vita».
Dei 31 titoli che lo scrittore americano ha pubblicato, 27 sono opere di finzione. Lo riepiloga lui stesso nella prefazione al volume. A parte Patrimonio (1991), che racconta la malattia terminale e la morte del padre, e I fatti (1988), una breve autobiografia che ricostruisce il suo percorso di narratore, Roth ricorda di aver scritto i suoi testi saggistici quasi «sempre per ribattere a una provocazione – accuse di antisemitismo e di odio per la mia ebraicità – o per rispondere a un’intervista per una testata seria o per accettare un premio o per celebrare un compleanno particolarmente significativo o per commemorare un amico scomparso», anche se la migliore commemorazione sembra essere quella contenuta in una citazione tratta da Meglio vivi che morti di Bernard Malamud: «Il lutto è un brutto affare – sentenziò Cesare —. Se la gente lo sapesse, si morirebbe di meno».
Tutto il resto è letteratura, e cioè «una lotta con la scrittura», fino a quando – come Roth disse il 19 marzo 2013 durante la serata organizzata per il suo ottantesimo compleanno nella sua città natale, Newark – «un mattino mi sono svegliato con un sorriso in volto, perché avevo capito che nel sonno, a quanto pareva, mi ero miracolosamente affrancato dal mio padrone di una vita: le stringenti esigenze della letteratura».
Eppure su quel corpo a corpo che aveva caratterizzato tutta la sua esistenza («molti di noi muoiono cercando per l’ennesima volta la parola giusta», dirà parlando degli scrittori) Roth tornerà spesso, quasi a voler dare una risposta definitiva e assoluta. Scrivere per lui è sempre un fatto agonistico di cui parlare con similitudini guerresche: si tratta di «sferrare un attacco» a una struttura complessa come quella del romanzo, della necessità di possedere, per farlo, «vitalità intellettuale», ma anche energia e forma fisica, perché anche quando si è al meglio, il «quoziente di autotortura» che questo mestiere impone è enorme, pur nella consapevolezza che «tra vent’anni il pubblico intelligente costituito da appassionati lettori di romanzi letterari equivarrà per dimensioni alla cricca che legge poesia latina».
Si può dire che tutta l’opera di Roth abbia al suo centro il tentativo di dare una risposta a quella domanda: perché scrivere? È un’ossessione, un destino, una condanna, una necessità, un diritto, spesso condiviso con altri amici scrittori, spesso legato al fatto di essere ebreo.
Roth rifiutava l’etichetta di «scrittore ebreo americano» che riteneva una definizione inaccurata e fuori luogo: «Sono un americano punto e basta, oppure non sono niente». E nel saggio Rileggere Saul Bellow, contenuto in questa raccolta, rammenta che un giorno l’amico gli disse: «Da qualche parte nel mio sangue di immigrato ebreo ci sono tracce cospicue di dubbio sul fatto che io abbia il diritto di praticare il mestiere di scrittore».
Dopo aver annunciato l’abbandono Roth aveva cominciato a rileggere i 31 libri pubblicati tra il 1959 e il 2010. «Volevo capire se avevo sprecato il mio tempo. Non si può mai sapere», dirà in un’intervista allo «Svenja Dagbladet» nel marzo 2014. La risposta a questa domanda riecheggerà quella pronunciata da un suo eroe della boxe americana, Joe Louis, per 12 anni, dal 1937 al 1949, campione dei pesi massimi, che al termine della carriera, quando gli chiesero di dire qualcosa sul suo ritiro, «riassunse con grazia la faccenda in dieci parole: “Ho fatto il meglio che potevo con quello che avevo”».