Corriere della Sera, 22 maggio 2019
L’acqua che non c’è
«Con gli investimenti attuali, ai tassi attuali ci vorrebbero 200 anni per sostituire tutta la rete idrica italiana». Ma così tanto tempo a disposizione non ce l’abbiamo. Giovanni Valotti, presidente di Utilitalia e anche di A2A, mette in guardia: «I mutamenti climatici e i rischi idrogeologici ci pongono di fronte a una sfida. L’acqua è una risorsa scarsa, va consumata il meno possibile e va usata bene. Dobbiamo evitare di sprecarla e per questo sono fondamentali gli investimenti sulle reti».
Numeri alla mano, l’acqua impiegata oggi in Italia per uso domestico è la fetta più piccola della torta (tra il 20 e il 30%). I maggiori consumi vengono dall’agricoltura, ma anche dall’industria. «Non è un caso se Paesi poveri di acqua, come Israele, sono riusciti a ridurre del 70% i consumi attraverso tecniche di irrigazione avanzate». In Italia la situazione è differente. L’Istat, nell’ultimo Rapporto Sdgs 2019, che monitora quanto l’Italia si sta avvicinando ai 17 obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu, ci dice che l’efficienza della rete di distribuzione dell’acqua potabile è in peggioramento. La quota di acqua immessa in rete che arriva agli utenti finali è infatti scesa, dal 62,6% nel 2012 al 58,6% nel 2015. E nel 2018 il 10,4% delle famiglie italiane hanno lamentato irregolarità nel servizio di erogazione nelle loro abitazioni, una quota in aumento. È invece stabile la percentuale (29%), di famiglie che non si fidano a bere l’acqua del rubinetto.
«Nel Sud e nelle Isole le perdite della rete superano il 50%: significa che per ogni litro d’acqua immesso, solo la metà esce dal rubinetto, perché le reti sono molto vecchie», spiega Valotti. Del resto se si confrontano gli investimenti per abitante sul ciclo dell’acqua (ovvero captazione, distribuzione, depurazione), l’Italia è molto indietro: «Noi investiamo circa 35-40 euro per abitante, la media europea è di 80 euro e nei Paesi più avanzati si arriva fino a 120 euro. Oggi nel nostro Paese ci sono 10 milioni di abitanti che non sono serviti dalla depurazione, le acque che usano finiscono direttamente nei fiumi e in mare. Ed è il motivo per cui l’Unione europea ha aperto nei nostri confronti una procedura di infrazione – osserva Valotti —. L’investimento sulla depurazione è fondamentale per il riuso dell’acqua nell’irrigazione e in ambito industriale». Eppure negli ultimi dieci anni la situazione investimenti è andata migliorando. Dal dicembre 2011 la competenza in materia di servizi idrici è dell’Autorità di regolazione dell’energia, reti e ambiente. «Siamo passati da 500 milioni a circa 2 miliardi l’anno, ma è ancora troppo poco – spiega Valotti —. C’è bisogno di circa 5 miliardi di investimenti all’anno. Miglioriamo ma siamo lontani dall’Europa». In compenso in Italia l’acqua costa meno. «Mille litri d’acqua costano un euro a Milano, 1,5 euro a Roma, 3,5 euro a Parigi, 4 euro a Berlino e 6 euro nel Nord Europa – elenca Valotti —. In tutti questi Paesi il prezzo dell’acqua è determinato dall’autorità pubblica, così come i costi operativi e gli investimenti. In Italia le tariffe sono molto basse a scapito degli investimenti. Sia chiaro, l’acqua è un bene essenziale perciò vanno tutelate le fasce più povere e bisognose, attraverso bonus e sgravi fiscali».
La proposta di legge sulla disciplina delle gestioni idriche, prima firmataria Federica Daga dei Cinque Stelle, ha riacceso il dibattito sull’acqua pubblica. La posizione di Utilitalia, che riunisce 500 imprese pari all’85% del settore è chiara: «Portare l’acqua è un’impresa. Questo è il nostro slogan – conclude Valotti —. Ci vogliono tecnologia, competenza e finanziamenti. Un Comune non ha le competenze e le capacità finanziarle per farlo. Tariffe e investimenti devono essere decisi dal pubblico, ma la gestione deve essere in mano a imprese che sanno fare il loro mestiere».