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 2019  maggio 22 Mercoledì calendario

Ricordi di Jeff Widener, il fotografo di piazza Tienanmen

E pensare che quel giorno tutto sembrava giocare contro. Scattai per miracolo l’immagine di “Tank Man”, il giovane cinese che da solo tentò di fermare i carri armati diretti in Piazza Tienanmen. Il giorno prima, nel pieno degli scontri, una pietra mi aveva colpito in fronte e stavo ancora male. Un’altra mi aveva quasi distrutto la macchina fotografica. E poi avevo finito i rullini. Uno studente americano che studiava a Pechino mi procurò una pellicola da 100 Iso, dai tempi di esposizione lenti per me che usavo gli 800 Iso…».
Eppure la mattina del 5 giugno 1989, da un balcone del Beijing Hotel affacciato su Chang’an, la grande arteria che porta alla piazza dove gli studenti cinesi chiedevano riforme democratiche, il fotografo dell’Associated Press Jeff Widener – che oggi ha 62 anni– scattò quell’immagine che Time ha inserito nella lista delle 100 più influenti di tutti i tempi.
Poche ore prima nella piazza i militari avevano fatto strage di civili.
Pechino era nel caos. Cosa ricorda di quelle ore?
«Non vivevo in Cina, ero lì come rinforzo. Nei giorni precedenti, come gli altri colleghi, mi ero emozionato vedendo gli studenti costruire con la cartapesta la Dea della Democrazia proprio di fronte al ritratto di Mao sulla Città Proibita. L’atmosfera era gioiosa, ma ebbi presto la sensazione chele cose sarebbero andate male. Poi il 4 giugno mi trovai nel pieno del caos, schiacciato fra polizia e studenti. Fui ferito da quel sasso, saltai su una bici e mi riparai in hotel. Avrei potuto prendere un’altra macchina fotografica e tornare fuori, ma, lo confesso, ero terrorizzato».
Però la mattina dopo scattò ugualmente quella foto…
«Dal mio ufficio quella mattina arrivò l’indicazione di non correre rischi inutili, ma di tentare ugualmente di fotografare la piazza. Andai al Beijing Hotel dove c’era quello studente che mi aveva procurato il rullino: la sua stanza al sesto piano si affacciava sullo stradone.Ero esausto e mi addormentai. Fui svegliato dal rumore dei cingolati, mi affacciai e vidi quattro carri armati che avanzavano. Mi sembrò una bella composizione, stavo per scattare quando nell’inquadratura entrò quel tipo con la camicia bianca...».
Colse il momento giusto...
«Macché. Inizialmente pensai che stava rovinando quella che mi sembrava una buona foto. Poi capii. La gente intorno urlava: "Lo uccideranno". E io per poco non lo mancai: ero lontano, rientrai per montare il teleobiettivo e riuscii a scattare solo gli ultimi istanti. Feci appena tre foto: e di queste solo una risultò a fuoco».
Comprese subito il valore di quello scatto?
«Quantobasta da chiederea Kirk Martsen, lo studente chemi ospitava, di nascondersi la pellicola nelle mutandeeportarla dicorsa all’Ambasciata americana. L’ufficio dell’Aperainquel compounde furono loro a trasmetterla oltre oceano. Il giorno dopo erasulle prime paginedimezzomondo.Maneho capito davvero l’importanza soltanto annidopo, quando fu inserita nella lista delle foto più memorabili».
"Tank Man" fu immortalato anche da altri fotografi, c’è perfino un video. Secondo lei, perché proprio la sua foto è stata considerata la più significativa?
«Ogni foto di quell’uomo è emozionante a suo modo. A rendere particolare la mia credo sia quel che inizialmente mi era sembrato uno svantaggio. È leggermente sgranata a causa di quel rullino 100 Iso. E poi nel mio taglio l’uomo"Tank Man"sembra particolarmente vulnerabile ed estremamente potente insieme. Una sorta di Gandhi cinese che non si preoccupa di sé, ma resta fermo pretendendo risposte».
Quell’uomo è rimasto anonimo, della sua sorte non si sa nulla. Qualcuno dice che fu ucciso poco dopo. Le capita di pensare a lui?
«Continuamente. Quello scatto ha influenzato la mia vita e la mia carriera. Grazie a quella foto ho perfino incontrato mia moglie Corinna, 22anni più giovane di me e che non credeva avessi scattato io quella immagine. Ho pensato a lungo di cercarlo, ma altri hanno tentato e so che non c’è speranza di trovarlo. Seppure fosse vivo, nella Cina di oggi non avrebbe nessun interesse a farsi riconoscere».
Lei è più tornato in Cina? Cosa pensa del Dragone di Xi Jinping?
«Sono tornato in Cina molte volte. Di sicuro è un Paese diverso da quello sognato dai ragazzi di Piazza Tienanmen, ma finché l’economia resta forte i cinesi tollereranno ogni oppressione».
Quel suo scatto in Cina è censurato. Ha mai avuto problemi viaggiando lì?
«Ogni volta mi tengono alla frontiera un tempo infinito, guardano e riguardano i miei documenti, setacciano i file nel mio computer. Ma poi mi lasciano passare».
Il suo modo di fotografare è stato cambiato da quell’evento?
«Non ha cambiato il mio occhio, ma da allora mi assicuro sempre di avere abbastanza pellicola. E sto più attento quando lavoro in situazioni di alta tensione».
L’immagine di "Tank Man" è diventata un simbolo di resistenza.
Ma una foto può davvero cambiare la Storia?
«Ne sono certo. Trent’anni dopo, "TankMan" imbarazza ancora il governo cinese, che ha addirittura bandito la Laica perché ha usato quella mia foto in una pubblicità. È una denuncia continua. Scattai quella foto quasi per caso: ma per me è un onore che sia diventata un simbolo immutato nel tempo».