La Stampa, 22 maggio 2019
Due fisici alle prese con il futuro
Immaginate di avere un sistema di equazioni e di poterlo riempire con tante incognite quante bastano per descrivere i fenomeni che stanno accadendo in questo momento, in ogni parte dell’Universo: tecnicamente, così, sembrerebbe che sia possibile prevedere il futuro, sapere dove finirà ciascun atomo in ogni momento. Anche la vostra morte.
Questo era il convincimento (e forse il sogno) del matematico Pier Simon Laplace. Peccato, poi, che l’Universo si è rivelato ai fisici come un calderone di eventi governati da una legge che sembra l’ossimoro si sé stessa: il caos. E, allora, tutto da rifare.
Però, a pensarci bene, se tendo la corda di un arco con una certa forza, conosco la resistenza dell’aria, la velocità del vento e pochi altri dati potrei sapere dove finirebbe la mia freccia con un’accuratezza di pochi millimetri. Chiedetelo ai cacciatori del Neolitico. Ci siamo effettivamente evoluti con il fondato sospetto che il futuro si può prevedere. Non sarebbe così se, ogni volta che sterzo a destra, sarei sicuro di non invadere la corsia opposta. Ma, quindi, il futuro si può prevedere?
I modelli climatici
Luca Gammaitoni, fisico all’Università di Perugia, e il collega de La Sapienza Angelo Vulpiani, ci hanno scritto un libro: «Perché è difficile prevedere il futuro. Il sogno più sfuggente dell’uomo sotto la lente della fisica» (Dedalo). In parte la riposta è intuibile e comprensibile: più il «destino» risulta dalla somma di tanti dati meno sarà prevedibile. Ma con il futuro dobbiamo farci i conti: farà caldo nel weekend? Se investo in un fondo azionario al 50%, ma lo vincolo per almeno 15 anni, forse dovrei stare tranquillo!
Cominciamo dalla meteorologia: «Parliamo di un sistema caotico - spiegano Gammaitoni e Vulpiani - e quindi l’evoluzione dipende sensibilmente dalle condizioni iniziali (avete presente l’«effetto farfalla»? ndr), che però variano senza che le possiamo conoscere e controllare in ogni momento. E questo “errore” non influenza la previsione in modo lineare, ma esponenziale nel tempo: più guardiamo avanti e peggio è».
Ci potrebbe andare meglio se volessimo studiare il cambiamento climatico: dinamiche più lente, inerzia degli ecosistemi, un po’ di «tempo» per incaponirci ce l’abbiamo. Macché: «Se con la meteorologia abbiamo a che fare con i cambiamenti dell’atmosfera e fenomeni “veloci”, a condizionare il clima tra 50 o 100 anni saranno fenomeni lenti come le correnti marine o le immissioni di gas nel lungo periodo, per non parlare dell’astronomia: parliamo di mutamenti nell’ordine di migliaia di anni. Mettete tutto questo dentro una formula matematica e tanti auguri…».
E quindi i prospetti dell’Ipcc, l’ente Onu che misura la «febbre» del Pianeta? «Misura la tendenza, che certamente va verso il riscaldamento, ma se questo sarà di due o quattro gradi (come mostrano i principali modelli) non possiamo prevederlo». Il che, detto tra noi, può significare il proseguimento della vita sulla Terra o l’estinzione della maggior parte delle specie.
E va bene, proviamo a essere meno ambiziosi: fondo pensione, poche centinaia di euro al mese in titoli di Stato e azioni, crescita del 3,9% garantita e lo posso anche scaricare dalle tasse. Che fare? Un aneddoto: nel 2008, qualche mese dopo il crollo della Lehman Brothers, si riunisce a Londra, alla London School of Economics, il gotha della finanza. Alla discussione sulla crisi partecipa anche la regina Elisabetta (sembra che abbia perduto 25 milioni di sterline nella bancarotta, raccontano gli autori), che alza la mano e chiede: «Perché nessuno aveva previsto tutto questo?». Potremmo sfoggiare tanta matematica, ma probabilmente è più semplice cavarsela così: «Maestà, ha pensato che potrebbe contare anche il fatto che due aerei hanno attaccato il cuore di New York?». Già, il «cigno nero». Sempre in agguato.
Ma allora a che cosa serve la scienza, se dopo mesi di minuziosi calcoli tutto può saltare? La scienza della previsione serve eccome, perché l’alternativa sarebbe un cieco fatalismo. E poi ammettiamolo: spesso pensate al futuro e, quindi, dopo avere letto questo articolo buttereste via tutte le speranze? Certo che no. Ecco allora, sgombrato il campo dalle ombre, la sfida: non tanto prevedere il futuro e divinare, non studiare «come sarà» ma come «potrebbe essere»: anticipare i trend. Secondo il metodo scientifico classico, potendo riprodurre, nelle stesse condizioni, un fenomeno centinaia di volte, dovremmo concludere che quel fenomeno si ripeterà ancora. Con pesi e carrucole era facile, ma non possiamo studiare la demografia, i flussi migratori e il fabbisogno di energia delle nuove città, riproducendo il mondo e l’umanità in un grande laboratorio.
Maledizione esponenziale
Oggi, però, abbiamo una infinità di dati su cui contare: i Big Data, le tracce digitali lasciate dai dispositivi connessi. Hanno previsto elezioni politiche, con i Big Data, si spostano gli eserciti e si prendono decisioni sulla pelle dei Paesi. «Un tempo avevamo solo gli esperimenti e la teoria, e pensavamo ci bastasse, poi sono arrivati i dati e ci hanno insegnato che possono sconfessare la teoria stessa: i dati adesso sono la “verità” e spesso ci fanno rifare tutto daccapo». Tradotto: «La meteorologia non si farà più con i modelli al computer, che valgono per qualche giorno, ma guardando i i milioni di dati dei satelliti negli ultimi 10 o 20 anni: se un trend si ripete nel tempo, e in un tempo molto lungo, possiamo essere abbastanza sicuri che lo farà ancora. Senza scomodare i modelli estemporanei». «In trend we trust». Ci basti.
Quindi tutto a posto? Mica tanto, perché il numero di dati a disposizione cresce, ovviamente, con la dimensione del problema. Si chiama la «maledizione esponenziale»: in parole semplici, se il fenomeno è descritto da una sola variabile, con 100 dati potremmo cavarcela, ma, se le variabili sono due, allora ne servono 10 mila, invece per tre un milione e per cinque 10 miliardi e così via. Più i fenomeni che vogliamo prevedere sono descritti da molte variabili, più aumenta la richiesta dei dati da inserire, ma questi aumentano esponenzialmente la complessità del risultato.
Altro che fisica: forse i supplicanti al Tempio di Delfi, quando chiedevano oracoli a la Pizia, erano meno stressati di noi.