la Repubblica, 22 maggio 2019
Intervista a Salvatore Rossi: «Berlino ci ha ostacolato nel salvare le nostre banche»
Salvatore Rossi, ex direttore generale di Bankitalia, è nato a Bari.
Nel 1976 il ventisettenne barese Salvatore Rossi, laureato in Matematica con una tesi su “Equazioni del trasporto di neutroni”, entra per concorso alla Banca d’Italia ed è subito destinato alla Vigilanza nella sede milanese. Quarantatré anni dopo, il 9 maggio scorso, Rossi, nel frattempo diventato direttore generale della Banca, membro del Direttorio che la guida e presidente dell’Ivass, che vigila sulle assicurazioni, lascia il suo incarico. Lo fa anche per sbloccare la partita incagliata delle nomine in Bankitalia, dove il governo gialloverde chiede cambiamenti. Questa è la sua la prima intervista dopo l’uscita. Che anni erano, quelli del giovane Rossi in Bankitalia? «Un decennio per molti versi terribile, con pulsioni rivoluzionarie e un turbamento sociale grave e sentito. Nel ’79 ci fu l’attacco senza precedenti alla Banca d’Italia, con l’arrestò del governatore Baffi e del vicedirettore generale Sarcinelli. Pensando a quell’epoca anche il carattere eccezionale che paiono avere gli anni che stiamo attraversando si ridimensiona». E che anno è stato questo, il suo ultimo in Bankitalia e il primo con Lega e Cinque Stelle al potere? Un anno molto duro per la Banca? «No. Probabilmente sono cambiate le modalità di comunicazione, ma in sostanza non ho visto un attacco sistematico alla Banca d’Italia». Una prima commissione d’inchiesta su banche e controllori, poi lo scontro sulle nomine, ora una seconda commissione. Che altro doveva succedere? «C’è stato un rapporto dialettico non sempre facile tra la Banca d’Italia e il potere politico, come è spesso avvenuto. Ma quel che conta è che alla fine i nomi che erano stati scelti dal Consiglio superiore della Banca per il Direttorio siano passati, il risultato si è ricomposto». Ma resta un vulnus nei rapporti? «No, non mi pare. Tutto è bene quel che finisce bene». Eppure lei, a sorpresa, si è detto indisponibile a un nuovo mandato per il Direttorio. Perché? «Perché ho capito che era opportuno un cambiamento e ho voluto agevolarlo. L’ho fatto in nome dell’interesse pubblico e della stessa Banca. E ho dato retta a mia moglie, che mi diceva: “Perché devi stare là altri sei anni? Esci finché stai ancora bene e dimostra che altro puoi fare!”. Così insegnerò anche alla Luiss». Lei è stato gli ultimi sei anni nel Direttorio della Banca. In questo periodo le crisi di Montepaschi, Popolare Vicenza e Veneto Banca, Etruria e altre banche del Centro Italia. Perché così tante? «Mettiamo in fila alcuni fatti. Il primo è che la crisi finanziaria nata in Usa nel 2008-2009 non ebbe grandi effetti sulle banche italiane, che avevano pochi strumenti derivati come quelli che fecero saltare il sistema finanziario Usa e colpirono banche di altri Paesi europei». Erano prudenti o solo arretrate? «Non lo so, ma quel che conta è che non ci furono grandi effetti. Effetti che si ebbero invece dopo, quando l’Italia fu colpita da una doppia recessione che mandò in fallimento tante imprese e si ripercosse sui conti delle banche, visto che quelle imprese non riuscivano a pagare più i loro debiti. Ma i casi che lei cita di banche da salvare, che sono figli di quella situazione di crisi dell’economia reale, sono costati al contribuente italiano molto meno di quanto abbia speso il contribuente in Germania, in Francia, in Gran Bretagna o in Spagna per il salvataggio delle sue banche nazionali». Di fronte a questi casi Bankitalia ha vigilato bene sulle banche? «È una domanda che come è ovvio mi sono fatto tante volte in questi anni. Mi sono fatto venire dubbi e ho cercato di chiarirli interrogando chi lavora in Vigilanza, perché il Direttorio vede le cose dall’alto ma spesso non ha il contatto diretto con gli istituti. E la risposta che mi sono dato, è che sì, ha vigilato al meglio delle sue possibilità». Molta parte dell’opinione pubblica non è d’accordo. «Sono convinto che Bankitalia non avrebbe potuto fare altro con le norme che aveva a disposizione. Il dibattito allora si può spostare sulla giustezza di quelle norme, ma quel che è certo è che il Direttorio ha agito sempre in buona fede e nel rispetto delle leggi». Non avete saputo o non avete potuto ottenere che in Europa si facessero norme più adatte? «Quando nel 2013-14 era in discussione la direttiva Brrd sulla risoluzione delle crisi bancarie, Banca d’Italia e il ministero dell’Economia ci provarono: presentammo assieme un documento tecnico in cui si sosteneva che il cosiddetto “bail-in”, ossia il salvataggio delle banche con i soldi di chi ce li aveva messi, a partire dagli azionisti, e non il “bail-out”, che si faceva invece con i soldi pubblici, non poteva essere retroattivo e che ci sarebbe voluto un periodo di transizione perché tutti si abituassero alle nuove regole». Non è andata così. Non siete stati convincenti? «Non potevamo contrastare una tendenza che si affermava in tutta l’Europa a guida tedesca. Era anche scoppiata la crisi dei debiti sovrani che aumentava i sospetti tra Paesi del Nord e del Sud Europa». Sta di fatto che la Germania – e non solo – aveva già salvato le sue banche con soldi pubblici. «Sì, tanto che si potrebbe attribuire alla Germania questo pensiero: “Noi abbiamo salvato le nostre banche, adesso non diamo il permesso agli altri di salvare le loro”. Anche per il clima di sfiducia che si era creato». Sono parole che danno ragione a chi dice che l’Europa ci fa male… «Ma l’Europa che osserviamo oggi non è certo quella delle origini. L’Unione bancaria, non è nata anche per un ideale, come è stato per l’unione dei mercati o della moneta, ma solo per rispondere ai rischi di un possibile circolo vizioso: la preoccupazione che i debiti sovrani in pancia alle banche provocassero anche una crisi bancaria e aggravassero i problemi dei sovrani. La risposta avrebbe dovuto essere che se una banca fosse entrata in difficoltà il sistema europeo l’avrebbe salvata quasi subito, per evitare il diffondersi di crisi; poi – per i motivi che ho detto – le cose sono andate in un altro modo; si è deciso che una banca in crisi andava salvata dai suoi soci, obbligazionisti e depositanti». La paura dei debiti sovrani resta, almeno per l’Italia. Il ministro Tria avverte che uno sfondamento del deficit potrebbe essere vanificato dall’aumento degli interessi. «Ci si preoccupa molto dei rapporti dell’Italia con la Commissione europea, ma la cosa importante è soprattutto come gli investitori guardano ai nostri titoli di Stato. La loro unica preoccupazione è se l’Italia continuerà a rimborsarli a scadenza e a pagare regolarmente gli interessi e ogni segnale che mini in qualche modo questa sicurezza fa salire inevitabilmente lo spread. Questo di per sé non è che un termometro che indica il rischio percepito da quelli stessi investitori». Alcuni politici spiegano che di fronte al nostro enorme debito pubblico sta un’enorme ricchezza delle famiglie. È una garanzia? «Non in modo automatico. L’unico modo pratico per ridurre il debito pubblico utilizzando la ricchezza dei privati è una tassa patrimoniale. Ma come è ovvio si tratta di una decisione tutta politica, da illustrare in modo chiaro agli elettori». Lei ora ne è fuori: Bankitalia è una casta, anzi il massimo della casta? «È una parola che non andrebbe usata. Di sicuro Bankitalia è un posto dove si coltivano saperi e competenze, un deposito di sapienza. E se ha commesso un peccato è quello di non aver saputo diffonderla abbastanza; forse ha peccato in scarsa comunicazione. Ma non è certo una torre d’avorio. Non bisogna attaccare chi ha le competenze, il sapere, ma casomai chi di quel sapere abusa. Se no un declino rapido non ce lo toglie nessuno».