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 2019  maggio 22 Mercoledì calendario

L’illusione della decrescita felice

Periodicamente le civiltà subiscono la tentazione della decrescita. Ai tempi delle polis greche e nella fase declinante dell’Impero Romano erano spuntati dei filosofi, detti stoici, che predicavano il distacco dai beni materiali come rimedio all’infelicità. Seneca denunciava il tempo speso ad accumulare cose inutili, i supervacua, anticipando di molti secoli la scoperta da parte dell’economista Richard Easterlin del paradosso per cui oltre una certa soglia la felicità cessa di aumentare assieme al reddito. L’età moderna ebbe in Jean-Jacques Rousseau il profeta di un ritorno alle piccole comunità autarchiche, nelle quali ogni individuo era contemporaneamente contadino e artigiano. Oggi qualcuno torna a chiedersi se non faremmo bene anche noi a tornare a una vita più frugale.
Di cosa abbiamo bisogno per essere felici? Lo psicologo Abraham Maslow la faceva semplice. Disegnava una piramide e diceva: alla base ci sono i bisogni fisiologici (l’alimentazione, il sonno…) poi c’è la sicurezza, poi quello che lui chiama “appartenenza” ovvero l’amicizia e la famiglia, poi la stima e infine l’autorealizzazione. Il sistema capitalista può facilmente soddisfare i bisogni situati alla base della piramide. Eppure, come sapeva Maslow, questo non basta. Raggiunto un certo grado di prosperità economica, il problema è un altro: come si fabbrica l’autorealizzazione?
Nel dibattito americano dell’ultimo ventennio si parla di “politica del riconoscimento” per indicare la domanda proveniente dalle minoranze etniche, religiose, sessuali di un maggiore rispetto della propria differenza. Rousseau parlava di amor proprio, contrapposto al puro istinto di conservazione ovvero l’amore di sé.
La visione materialista di Maslow era coerente con l’ideologia della sua epoca, che mentre sviluppava il più imponente apparato produttivo della storia si illudeva che la società industriale sarebbe riuscita a garantire la soddisfazione di tutti i bisogni. Ma le cose girano al contrario rispetto a quanto pensava Maslow: via via che i nostri bisogni materiali vengono soddisfatti, cresce la competizione per quei bisogni sociali la cui soddisfazione dipende dall’insoddisfazione degli altri.
Nel corso degli anni la classe media occidentale ha vissuto una storia di progressivo arricchimento e imborghesimento, raggiungendo nell’epoca del boom un picco unico di ricchezza: una ricchezza accumulata nel tempo e nello spazio, ovvero mettendo a profitto il lavoro di persone che ci hanno preceduto oppure di altre che, dall’altra parte del mondo, estraevano le materie prime di cui avevamo bisogno. Questo sistema di divisione internazionale del lavoro ha fissato i nostri standard di esistenza come se fossero naturali e universali. Oggi ci accorgiamo che siamo stati beneficiari di un sistema economico tanto fragile quanto fondamentalmente ingiusto, anche sul piano ecologico. Via via che s’incrina il predominio occidentale, una parte crescente della popolazione mondiale si concede finalmente il diritto di desiderare la stessa cosa che desiderano le classi medie americane ed europee, trascinando l’intero pianeta in un conflitto per l’accesso alle risorse materiali ma anche a quelle simboliche.
E se invece di accelerare la soluzione fosse decrescere? Non possiamo escludere che un uomo del paleolitico fosse più felice di noi stressatissimi impiegati del terziario, ma possiamo essere abbastanza sicuri che nessuno di noi potrebbe vivere come un uomo del paleolitico; basta osservare come reagisce la popolazione a qualsiasi minaccia che riguardi il proprio stile di vita.
Il problema ecologico del pianeta è lo stesso, esistenziale, della classe media occidentale “disagiata”: una domanda drogata dal bisogno di riconoscimento, che impegna una quantità enorme di risorse, di energie, di lavoro e di violenza. Per questo non ci potrà essere decrescita che non sia innanzitutto decrescita culturale, un massiccio cantiere di deprogrammazione dell’amor proprio.
Ma il mondo sta andando in tutt’altra direzione. Oggi la lotta per il riconoscimento che contraddistingue la società liberale è diventata planetaria. Non stupisce che molti si percepiscano come perdenti – ognuno lo è rispetto a qualcun altro, o rispetto a se stesso in un altro momento della vita – e dunque covino un crescente disagio e un profondo risentimento. Proprio la paura di decrescere ha messo sul piede di guerra la classe disagiata occidentale, che oltre a non volere spartire la propria ricchezza teme di scivolare giù nella gerarchia sociale della dignità internazionale. Questo disagio caratteristico della civiltà capitalistica porta anche a una percezione distorta dei rapporti politici ed economici.
Come Rousseau qualcuno si è convinto che potremmo vivere coltivando un orticello; oppure trasformando l’intero Paese in un grande campo da zappare. Mentre sogniamo il pomodoro coltivato in perfetta autonomia, perdiamo di vista qualcosa di più grande: ovvero che dipendiamo da un complesso sistema di estrazione delle materie prime, di approvvigionamento delle risorse, di sfruttamento del lavoro, di regolazione dei rapporti sociali, di profilassi sanitaria – un sistema complesso, e costoso, senza il quale non potremmo sopravvivere un sol giorno.
Indubbiamente, notava Montesquieu nelle sue Lettere persiane, Parigi è corrotta dai lussi; ma ogni tentativo di tornare a un’ideale età dell’oro riconvertendosi a un’economia di pura sussistenza sarebbe stato pura follia.