il Giornale, 22 maggio 2019
Le paghe di archeologi, curatori e bibliotecari
Sono in gran parte disoccupati, non hanno una lira, e continuano a star zitti. Sono i professionisti della cultura: archeologi, storici, critici d’arte, archivisti, bibliotecari, curatori, restauratori, guide turistiche, attori, scenografi, progettisti, ricercatori, assistenti negli atenei.
Lavorano con i 4.160 musei pubblici e privati, le 13.985 biblioteche, i 280 siti e parchi archeologici, i 540 complessi monumentali, i 5.480 teatri, le 91 università, le migliaia di fondazioni, conservatori, accademie, soprintendenze, istituzioni religiose e culturali. Insomma, lavorano con i luoghi che dovrebbero costituire, per un Paese come l’Italia, il settore strategico di maggior rilevanza pubblica, ovvero quello della conoscenza e della sua divulgazione, che si rivolge a 60 milioni di italiani e a 560 milioni di turisti che bussano ogni anno in Europa.
Invece, proprio in questi luoghi, i soldi spariscono. Non ci sono, non girano. I servizi è consuetudine non pagarli. Se sei volontario, sei ben visto. Se vuoi essere pagato, iniziano i problemi. L’ultimo esempio clamoroso è di pochi giorni fa: con un bando il ministero dei Beni culturali cerca professionisti per attività di archiviazione e digitalizzazione documentale alla Biblioteca Angelica di Roma (il fondo antico è di 120mila volumi). Quanto li paga? 5 euro lordi l’ora, circa 3,75 euro netti. In un giorno il professionista guadagna 19 euro, in un mese 380 euro, senza tutele o garanzie.
Ci si indigna per gli immigrati sfruttati nei campi di pomodori. Per questo bando pubblico che umilia laureati in biblioteconomia, reperiti tramite associazioni di volontariato, non c’è stata nessuna indignazione pubblica. Perché? Perché questo bando, purtroppo, non è l’eccezione. È la norma nel mondo della cultura. L’idraulico lo paghi, così come paghi il carrozziere, l’elettricista, il muratore, il parrucchiere, il dentista. Nella cultura, invece, il guadagno è giudicato accessorio e il profitto è un male. Così i professionisti della cultura vivono tra la fame, finte partite Iva, fatture da pochissimi euro, collaborazioni gratuite, richieste di volontariato su quasi tutte le loro prestazioni. Basta girare nei vari settori per radiografare questa dannosissima prassi.
MUSEI E SITI ARCHEOLOGICI E MONUMENTALI Le case d’aste Sotheby’s e Christie’s fatturano 10 miliardi di dollari l’anno. Lo Stato italiano ci mette 50 anni (mezzo secolo) per investire la stessa cifra sull’immenso patrimonio artistico nazionale. I restauratori, che dovrebbero essere numerosi quanti i commercialisti e gli avvocati, si sbranano per i pochissimi posti disponibili tra le due istituzioni di riferimento (l’Opificio delle Pietre Dure e l’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro), e per i finanziamenti con il contagocce che il Consiglio Superiore dei Beni Culturali e le fondazioni bancarie indirizzano per questo o quel risanamento. Del resto questi sono i dati ufficiali, pubblicati dal Mibac: sono decine i musei e i siti archeologici statali da 0 a 3 visitatori paganti al giorno. Analoga situazione per molti monumenti civici e religiosi. Con questi numeri quali redditi puoi generare? Vige il Far West sulle guide turistiche (in gran parte laureati senza sicuro lavoro in storia dell’arte, museologia, gestione dei beni culturali o lingue straniere). Finora non vi è una normativa omogenea sull’esercizio della professione. Nelle città d’arte è un servizio malamente organizzato, altrove ci si affida al volontariato.
BIBLIOTECHE E ARCHIVI Le biblioteche sono un servizio pubblico essenziale, come gli ospedali e le scuole. Ma nelle quasi 14mila biblioteche (oltre 7.200 civiche, 2.600 universitarie, 1.600 ecclesiastiche, 40 statali, il resto scolastiche) si tocca con mano la crisi sistemica dei professionisti del settore. Quasi tutte le università hanno una specializzazione in biblioteconomia, archivistica e codicologia, che è un requisito necessario nei concorsi ministeriali. L’Istat annovera il bibliotecario tra le professioni «ad elevata specializzazione». Peccato che la realtà sia opposta: nelle biblioteche civiche, che sono la maggioranza, l’apparato comunale manda i rimpiazzi, le terze file, ovvero quei dipendenti che non metteresti mai negli uffici importanti di avvocatura, contabilità e affari generali. Il personale qualificato, nelle biblioteche, è ancora un miraggio. Come registra l’Istat, nonostante le oltre 65mila imprese attive nei settori culturali, gran parte degli specializzati nelle humanae litterae sono costretti a cercare lavori in altri settori, dove non hanno alcuna competenza riconosciuta.
TEATRI E FONDAZIONI LIRICHE Nel calcio la Champions League porta ogni anno nelle casse delle società 1,95 miliardi di euro, quasi 2.000 milioni di euro. In Italia lo stanziamento del Fondo unico per lo spettacolo per il 2019 è di 73.167.764 euro più 4.839.151 euro per i progetti multidisciplinari, cioè l’intero sistema teatrale, fatto da teatri nazionali, stabili, di tradizione, di sperimentazione, di innovazione, lirici sinfonici, d’opera, di figura e di immagine, di strada, centri di produzione, festival, istituzioni concertistico orchestrali, ci mette 25 anni (un quarto di secolo) per equipararsi agli introiti della Coppa dei Campioni. Società e calciatori sono vincolati ai risultati. I teatri meno, perché la cultura non è un conto matematico da classifica; ma la realtà è che, al di là del contratto collettivo nazionale di lavoro per attori, tecnici, coristi, ballerini e altri operatori dello spettacolo, i teatri sono il luogo per eccellenza del sottoimpiego, della sottorappresentanza, del pagamento una tantum, senza tutele e garanzie. I sindacati coprono solo i dipendenti, non i collaboratori esterni, che oramai sono la maggioranza.
UNIVERSITÀ E ACCADEMIE «L’Università è da tempo un malato grave. Molti di questi mali sono noti: servilismo e mercimonio, corruzione e clientelismo. Principi venerabili sono stati piegati al servizio di consorterie, favorendo una nuova baronia universitaria non meno potente della vecchia, ma incomparabilmente più arrogante, ignorante e corrotta». Sono parole pesanti, del 2016, di alcuni dei più noti accademici e intellettuali nostrani, tra cui Magris, Bodei, Zagrebelsky, Rodotà. Gli esempi sono molti, basta sentire i borsisti, dottorandi, assegnisti, ricercatori, molti dei quali mai diverranno professori associati o ordinari. Annamaria Monteverdi ha dovuto aspettare sette anni, fra tribunali, contenziosi, ricorsi al Consiglio di Stato, per veder riconosciuti i suoi titoli di studio in un concorso pubblico e un posto come ricercatore alla Statale di Milano.
La diagnosi sugli stipendi da fame e sul volontariato al posto del guadagno potrebbe proseguire con altri settori (esposizioni d’arte, case editrici, mass media, uffici stampa). Remissivi e passivi, i professionisti della cultura accettano di vivere così. Ma il loro disciplinato ed educato silenzio li fa ancora più irrilevanti. E l’irrilevanza sociale è il vero male che li sta decimando.