La Stampa, 22 maggio 2019
Negli slum si vive bene
Di questi tempi, la discussione intorno all’urbanistica è come una messa in latino: carica di gergo tecnico, rafforza le barriere attorno a una categoria professionale. I dibattiti degli urbanisti suonano come edifici che parlano ad altri edifici. Di conseguenza, le persone non ascoltano pianificatori in gamba e intelligenti a Mumbai o Città del Messico, perché non parlano un linguaggio comprensibile agli altri. Oppure parlano solo lingue internazionali come l’inglese e il cinese, e non lingue locali come il marathi o il fujianese. Non conosco alcun genere di programma di scambio tra i dipartimenti di pianificazione urbana e quelli di giornalismo, ma so di pochi scrittori o giornalisti che capiscono davvero il funzionamento delle città. I pochi che lo conoscono non sono in grado di tradurlo in una storia che affascini i lettori – tutti i lettori, anche quelli che amano il gossip. Nel frattempo gli agenti immobiliari investono in narratori e storyteller professionisti per vendere a una popolazione disinformata i loro sogni fatti di immense piscine e torri dorate nel parco.
Se filosofi e letterati scrivono con un linguaggio incomprensibile, potrebbe venire meno la capacità di comprendere la filosofia o la letteratura, ma questo non influenzerà mai la vita quotidiana. Quando però sono gli urbanisti a parlare una lingua indecifrabile, allora i sogni (quelli di chi disegna) possono diventare incubi (quelli di chi ci abita). Perché siamo costretti a camminare, dormire, vivere nei sogni altrui. Dobbiamo essere in grado capire la storia che ci stanno vendendo.
È fondamentale che i pianificatori escano dalle accademie e dalle università per entrare nella vita reale: per spiegare ai cittadini di Mumbai che non si può combattere il traffico costruendo un ponte nuovo e gigantesco, perché l’unico risultato è arrivare all’ingorgo più velocemente; o per dire alle persone che vivono nelle comunità chiuse a Istanbul, una delle città più sicure d’Europa, che se guardassero quanto spendono al mese per le guardie di sicurezza, realizzerebbero che è forse più economico essere derubati ogni mese. Io sto parlando del ruolo fondamentale dell’urbanista come intellettuale pubblico. Perché, senza una volontà politica, tutti i progetti di pianificazione delle nostre grandi città rimarranno su un tavolo da disegno. E la volontà politica può essere generata solo se informiamo e appassioniamo la cittadinanza. I cittadini sono già pronti perché sono entusiasti di abitare in città.
Ma in tutte le narrazioni, la scelta delle parole usate nella storia è cruciale. E la più carica di significato di tutte queste parole è «baraccopoli». Che cos’è una baraccopoli? L’architetto Rahul Mehrotra una volta ha spiegato: «A noi non piace, quindi la chiamiamo slum». Chi vive nelle baraccopoli di Mumbai ha un’altra parola per slum: «basti», comunità improvvisata. Un basti è ricco di spazi comunitari – in coda per il bagno, in fila al rubinetto dell’acqua, dove i bambini giocano a cricket, davanti alle centinaia di piccoli negozi che soddisfano ogni bisogno umano. La costruzione dei basti è cruciale per lo «spirito di Mumbai» che salva la città di volta in volta, nel caso di inondazioni, rivolte e attacchi terroristici.
Ogni stanza nei basti è squisitamente costruita su misura, ogni piccolo dettaglio, compresi pareti e soffitti. Ogni stanza è diversa e, nel corso dei decenni, adattata alle esigenze dei suoi proprietari. I basti sono infinitamente flessibili, con partizioni e piani extra in base al numero di familiari che vivono lì. Sono colorati, fuori e dentro, secondo il gusto dei loro proprietari. Guardate una colonia di baraccopoli in qualsiasi parte del mondo: è multicolore. Poi guardate l’edilizia pubblica che la sostituisce quando viene demolita: è monocromatica. È anche impersonale, generica, fungibile: un trionfo dell’anonimato sulla comunità. La maggior parte di questi edifici sembra esattamente uguale, non solo a Mumbai ma anche a San Paolo, Giacarta, Johannesburg.
C’è un enorme accaparramento di terreni in corso a Mumbai, chiamato SRA (Slum Rehabilitation Authority), in base al quale, se il 70% dei residenti di uno slum accetta di far demolire il proprio spazio in cambio di alloggi per progetti costruiti per lo più da privati, le opinioni dell’altro 30% non contano. Come mi è stato spiegato durante una visita alle baraccopoli di Jogeshwari, «il 70% è il 100%».
Le persone che conoscevo quando stavo facendo ricerche per Maximum City – Bombay città degli eccessi [tradotto da Einaudi, ndr] negli anni 90, attive nelle rivolte, nei movimenti underground, in politica, ora sono tutte nel settore immobiliare. I costruttori distribuiscono denaro ai bulli di quartiere, al fine di blandire o costringere il 70% dei residenti della baraccopoli a firmare. L’accordo tra costruttori e governi è questo: possono progettare abitazioni di lusso per i ricchi solo se costruiscono anche alloggi sostitutivi per i poveri.
Gli appartamenti misurano fino a un massimo di 82 metri quadri, sufficienti per un piccolo soggiorno e una microscopica camera da letto, divisi da una cucina striminzita. Ogni appartamento ha un bagno privato. Tutto ciò sembra perfetto. Fino a quando non parli con chi vi si è trasferito. «La nostra sanskrùti – la nostra cultura, i nostri valori – è inesistente in questi appartamenti», mi spiegò tristemente un uomo anziano, osservando gli anonimi edifici di cemento. Nei basti le porte sono sempre aperte; mentre quelle degli appartamenti sono chiuse. Mentre le città di tutto il mondo stanno abbattendo le case popolari, Mumbai sta costruendo, freneticamente, decine di migliaia di formicai edilizi.
Chi costruisce queste pessime strutture in ogni parte del mondo? Da qualche parte sul pianeta, in un ufficio di pianificazione del governo, deve sedersi un architetto senza scrupoli. È da questa tana che disegna tutti gli alloggi popolari del mondo.
Rimaniamo senza fiato di fronte all’antica bellezza di Lisbona; siamo pronti a sborsare milioni per vivere a Trastevere, nel Marais o nell’East Village – senza accorgerci che altro non erano se non le «baraccopoli» di cento anni fa. I nostri giovani ora vogliono vivere dove, una volta, abitava l’altra metà, quella più povera. Una mia giovane amica ebrea a New York stava cercando un appartamento nel Lower East Side – immediata la risposta della nonna incredula: «Ho passato metà della mia vita a cercare di fuggire da quel posto».
La più grande sfida per le città in tutto il mondo è la casa, in tutti i sensi. La Grande Mumbai conta oltre 20 milioni di abitanti, e parti del centro hanno una densità di popolazione di oltre un milione per miglio quadrato [il miglio corrisponde a 1,609 km, ndr]. Come diavolo fanno tutte queste persone a vivere insieme? New York è in preda al panico perché nei prossimi 20 anni passerà da otto a nove milioni. A Mumbai, ogni anno, la popolazione aumenta di un milione. Mi sono reso conto, quando stavo scrivendo il libro, che questa città sopravvive grazie a una rete di solidarietà tra i poveri.
Il 27 luglio 2005 ha registrato la più alta piovosità nella storia di Mumbai: 94 centimetri di pioggia in un solo giorno. L’alluvione ha mostrato il peggio e il meglio della città. Centinaia di persone sono annegate. Ma a differenza di New Orleans dopo l’uragano Katrina, il tasso di criminalità non è aumentato, anche se la polizia era assente. Questo perché tutti erano impegnati ad aiutarsi a vicenda. Chi abitava nei basti ha prestato soccorso andando nelle autostrade e portando gli automobilisti bloccati nella propria abitazione, facendo spazio nelle baracche dove l’occupazione media era di sette adulti in una stanza. I volontari hanno rischiato la vita per portare cibo alle 150.000 persone bloccate nelle stazioni ferroviarie. Catene umane hanno tirato fuori dall’acqua chi stava affogando. Il governo era assente, ma nessuno si aspettava il contrario.
Un basti è il sogno di un anarchico perché tutti i servizi che lo Stato dovrebbe fornire – acqua, elettricità, trasporti, sicurezza – sono di fatto privatizzati. Gli abitanti di Mumbai si sono aiutati a vicenda, perché avevano perso la fiducia nel governo. Su un pianeta di cittadini, questo è l’unico modo in cui la maggior parte degli esseri umani vivrà nel XXI secolo.