Corriere della Sera, 21 maggio 2019
Intervista a Isabelle Huppert
CANNES Isabelle Huppert, parigina classe 1953. E quanta classe! Giacca principe di Galles sul bordeaux, stivaletti di vernice nera leggermente fetish. Rossa, esile, pelle di latte. Mai una parola di troppo, essenziale come il suo modo di recitare, dove un battito di ciglia è già troppo. È lei Madame Festival: «È la ventiduesima volta che partecipo a Cannes, nelle varie sezioni. Sono stata presidente e membro di giuria, sei in una bolla per due settimane e crei un bel team». Isabelle ha vinto due volte la Palma, Violette Nozière e La pianista. In una scena di Frankie, il film dell’americano Ira Sachs, al piano suona la malinconia di Schubert. Interpreta un’attrice che sta morendo, e riunisce parenti e amici a Sintra, in Portogallo.
Il suo personaggio non lotta per vivere, non c’è tempo: lei cosa avrebbe fatto al suo posto?
«Capisco la domanda ma non mi metto mai nei panni dei miei personaggi, ed è curioso perché sullo schermo sono quella donna e non lo sono, e qui interpreto un’attrice, non so quanto brava. Non mi sento scomoda e lacerata come i miei personaggi, non me li porto a casa».
Ci sono cliché che ha evitato recitando un’attrice?
«Ho evitato i cliché, non i cliché di una collega. Ma con la costumista abbiamo parlato molto di questo, a proposito di cosa dovevo indossare. Volevo colori freddi e forti; mi interessava creare un ruolo, non un’attrice».
Recita in inglese.
«Sì, e a Cannes non mi capitava dal 1980, dai tempi di I cancelli del cielo di Michael Cimino. Quando parlo in inglese la voce e la mia faccia non sono le stesse, cambiano, diventi un’altra persona. Mi sono appena doppiata nella versione francese, sempre meglio che l’abbia fatto un’altra attrice».
Ha dei lampi d’autoironia feroce…
«Merci. L’ironia, anche nei film che le sono lontani, è qualcosa a cui tendo molto negli ultimi anni. Non mi interessa la mitologia di me stessa».
È un film americano ma…
«Ma non lo sembra. Ira Sachs è un regista indipendente, nella sua semplicità, sembrava di fare un documentario. Lui non vede i personaggi: vede la gente. Il film è pieno di contraddizioni, cupo e solare, e in maniera sottile è tragico e a volte ironico. La natura è un altro personaggio. La nebbia, la rugiada, la minaccia esaltano i significati metaforici. Penso all’ultima scena».
La vita che si allontana, sembra un lento rituale verso la morte.
«Sì, io rimango da sola a guardare gli altri, che camminano e si perdono all’orizzonte, verso il mare. C’è il tramonto, un ultimo raggio di sole».
C’è una scena in cui lei dice tutto limitandosi a unire le mani…
«Nel film la mia amica ha un gesto di intimità con mio marito, forse avranno un affaire dopo la mia morte. L’idea al mio personaggio non dispiace. Immagina il futuro senza di lei. Niente è drammatizzato in eccesso, eppure non puoi immaginare una situazione più drammatica».
Gli altri, intorno a lei, parlano del futuro, lo progettano: lei, non lo ha.
«La malattia, che si percepisce lentamente, è una presenza definita che dà un tono inquietante. Si parla anche di come il mondo degli affetti si relaziona alla mia malattia. Siamo alla fine di un’esistenza, nessuno lo dice in maniera chiara, si gira intorno».
Ha tanti ricordi italiani.
«Bolognini, Ferreri, i Taviani, Bellocchio. Non male! Non esiste una scuola italiana, quando gli stili sono così personali».
Ha mai pensato di scrivere la sua biografia?
«No, lavoro tanto. Dopo la conferenza stampa vado a New York per incontrare Bob Wilson: farò un monologo teatrale su Maria Stuarda».
Il tappeto rosso, le pressioni della gara?
«Le pressioni per me non sono così tante, dai, si sopravvive. Il tappeto rosso sarebbe un dramma se inciampassi nel vestito».