Corriere della Sera, 21 maggio 2019
Richard Powers vive in un bosco. Intervista
Ricerche scientifiche, riflessioni filosofiche e personaggi eccentrici sono al centro di ciascuno dei dodici romanzi di Richard Powers, da Tre contadini che vanno a ballare…, pubblicato nel 1985, a Il sussurro del mondo, Premio Pulitzer per la narrativa 2019. Il sussurro del mondo — che dopodomani, il 23 maggio, esce in Italia per La nave di Teseo grazie alla traduzione di Licia Vighi – è un libro che, oltre a uomini e donne, conta tra i propri protagonisti anche un gruppo di alberi e attraversa le loro storie dalle radici ai rami, fino ai semi, per portare i lettori a una prospettiva molto più durevole e sottile rispetto a quella umana a cui siamo di solito abituati.
Nato nel 1957 a Evanston, in Illinois, Powers ha insegnato per anni all’Università di Stanford a Palo Alto, in California, e si è da poco trasferito sulle Great Smoky Mountains del Tennessee. «Suppongo che ognuno dei miei romanzi mi abbia cambiato – racconta al “Corriere della Sera” – ma mai un libro mi ha portato ad attraversare un continente e ha trasformato così tanto il mio modo di vivere e trascorrere le giornate. Nel corso delle mie ricerche per Il sussurro del mondo sono rimasto sconvolto dall’apprendere che il 98 per cento delle foreste vergini degli Stati Uniti è stato abbattuto e che ora ne rimangono solo poche zone sparse. Continuavo a leggere che chi ha il desiderio di vedere una foresta vergine di latifoglie orientale, deve venire qui nelle Great Smoky Mountains degli Appalachi meridionali. Sono venuto da queste parti per un viaggio di studio e camminare nel mezzo di alcune tra le più vaste foreste vergini superstiti d’America. La vista, il suono e l’odore di tali foreste mi hanno travolto. Mi sono reso conto che era la prima volta in vita mia che vedevo com’è fatta una foresta sana e perfettamente funzionante. Me ne sono innamorato.
Un anno più tardi, i miei pensieri erano ancora rivolti a queste foreste. Così sono tornato e ho comprato casa, e da allora vivo qui. Ora nel mio cortile ho mezzo milione di acri di natura selvaggia, con un numero di specie di alberi maggiore rispetto a quelli presenti in tutta Europa, dal Portogallo agli Stati baltici. Posso camminare ore e ore e non incontrare mai un altro mammifero bipede. Credo che sia l’evoluzione più felice dei miei 34 anni di carriera di scrittore!».
Lei è sempre stato molto stimato dai lettori più appassionati, ma «Il sussurro del mondo» era già amato da un gruppo di lettori molto ampio ancor prima della vittoria del Pulitzer. È forse giunto a una conclusione del perché di tale successo?
«Beh, parte dell’esplosione del numero di lettori ha sicuramente a che fare con il soggetto. Non tutti riescono a mettersi in relazione con storie di intelligenza artificiale o di genetica, ma sono pochi gli esseri umani che non hanno mai sentito la magia e il potere degli alberi. La storia degli alberi e delle persone è un dramma tragico e sociale. Un melodramma vero e proprio! Nella maggior parte di noi c’è ancora un po’ di animismo o panteismo, un tipo di credo che proviene dalla nostra infanzia personale e dalla giovinezza della civiltà umana. Tutti noi soffriamo di quello che gli psicologi chiamano “solitudine della specie umana”, l’ansia che deriva dal pensare che siamo qui da soli. Questo romanzo è il mio tentativo di ricordare che non è così. Oltre a ciò, ho cercato di ampliare e approfondire il mio repertorio di personaggi, raccontando storie di persone provenienti da percorsi di vita che prima, da scrittore, non avevo mai incontrato».
Con questo libro è riuscito a raggiungere qualcosa che i narratori tribali hanno fatto per anni, ma gli scrittori moderni hanno tentato di rado: trasformare gli alberi in personaggi affascinanti e coinvolgenti. Cosa l’ha spinta a provarci?
«Mentre scrivevo il libro, spesso ricevevo risposte sconcertate o persino preoccupate da parte di amici e familiari, quando dicevo loro che stavo scrivendo un romanzo in cui gli alberi sono figure centrali. I miei amici pensavano che stessi raschiando oltre il fondo del barile, e a volte mi sono chiesto se avessero ragione. Ma, mentre continuavo a scrivere, ho cominciato a chiedermi: perché gli esseri viventi non umani non sono parte di tutti i buoni romanzi? Perché non tutti i libri sono sugli alberi? Come possiamo raccontare storie su noi stessi, su chi siamo e come siamo arrivati qui, senza mettere al centro tali soggetti e personaggi giganteschi, longevi, che modellano il mondo, come è sempre stato nella maggior parte delle storie di tutto il mondo nel corso della maggior parte della storia umana? Il non umano rende l’umano possibile; ci rende ciò che siamo, in ogni senso.
Studi recenti hanno dimostrato come gli alberi comunichino tra loro, sia attraverso l’aria che il sottosuolo. Condividono le proprie risorse e sono collegati in comunità sociali. Noi umani siamo affamati di contatti esterni a noi stessi. E loro eccoli qui, intorno a noi, in attesa di essere notati, ricordati e presi sul serio».
Questo libro ha la capacità di ispirare storie che potrebbero riportarci alla vecchia tradizione letteraria dei drammi tra gli esseri umani e gli abitanti non umani di questo pianeta. Secondo lei perché ultimamente abbiamo dimenticato tale argomento a favore dei drammi psicologici e politici?
«Penso che questa amnesia sia in gran parte una conseguenza del crescente potere delle nostre tecnologie e della nostra paura della morte, che è sempre più forte. Ogni aumento della nostra capacità di modificare e mitigare le regole del tempo e dello spazio attraverso le protesi tecnologiche è come una droga che crea dipendenza. Il potere crescente che ci porta a volere le cose a modo nostro e a padroneggiare il mondo è inebriante e ci fa sognare di essere completamente liberi dal ciclo della vita e della morte, liberi dalla comunità reciproca e interdipendente di tutti gli esseri viventi. Siamo come individui che, grazie a uno straordinario colpo di fortuna, hanno potuto renderla più ricca e ora trovano facile dimenticare tutte le altre vite che ci hanno dato il via. Daterei la scomparsa del mondo vivente come luogo e protagonista della nostra narrativa letteraria agli ultimi decenni del XIX secolo, che, naturalmente, è il momento in cui le nostre scoperte e invenzioni hanno iniziato a portarci alla folle fantasia di essere soggetti autonomi ed eccezionali, capaci di tenere in pugno il nostro destino e significato. Ma, come stiamo ora iniziando a capire, il sogno di padronanza e controllo è del tutto delirante. Il nostro allontanamento sarà la nostra rovina».
La struttura del suo romanzo è stata elogiata da lettori e critici. Ha avuto questa struttura in mente fin dall’inizio?
«Sarebbe stato bello! L’organizzazione di un libro lungo e con un gran numero di personaggi principali – nove, in tutto – ha dimostrato di essere una sfida molto ardua per trovare il modo di invitare i lettori ad avventurarsi in un panorama così ampio e complesso. Ho tentato di dargli ordini diversi: puramente cronologico, geografico, tematico... Solo quando ho avuto l’idea di lasciare che le storie secondarie dei personaggi principali si svolgessero senza interruzione, quasi come un’antologia di racconti, mi sono reso conto di avere le “radici” di un albero enorme. Una volta fatta questa scoperta – in seguito a una mezza dozzina di bozze importanti – ho visto con chiarezza il modo in cui queste radici convergevano in un tronco per poi tornare ad allargarsi in una serie di rami separati, e in seguito lasciar cadere i propri semi. Non avevo idea di essere in tale direzione: ho dovuto inciamparvi.
Suppongo che la lezione sia di prestare attenzione alla propria cecità e cercare sempre di essere pronti a trarre profitto da qualsiasi fortuna ti si getti addosso».
I suoi romanzi sono spesso stati in anticipo sui tempi. Oggi, in un’epoca in cui i libri parlano tanto di razzismo e molestie sessuali ma non ancora di barbarie contro l’ambiente, «Il sussurro del mondo» sembra anticipare uno dei prossimi principali temi letterari.
«Penso che sia una cosa giusta da dire. Però ho iniziato a scrivere questo libro un bel po’ di tempo fa, e per finirlo mi ci sono voluti quasi sei anni. Sono lieto di poter dire che, da quando l’ho finito, l’idea di “specismo” come grande difetto e crisi nella società umana ha cominciato a essere scoperta ed esplorata da scrittori e letterati di molti Paesi. Mi sembra che sfidare l’eccezionalità umana e affrontare la devastazione che tale visione del mondo ha promosso sia una delle cose più potenti che la narrativa contemporanea possa fare».
Quando ha scritto il suo primo romanzo, ha detto di avervi messo dentro tutto ciò che sapeva perché credeva che non avrebbe mai più avuto un’altra possibilità. Cosa direbbe oggi a quel giovane sé stesso?
«Beh, non riesco quasi a ricordarlo quel giovane! Ha meno della metà dei miei anni. Gli sono però grato da capo a piedi per aver scritto in preda alla piena passione e confusione della giovinezza, con tutto lo zelo e la sciocchezza difficili da trovare per un autore più anziano. Se potessi viaggiare nel tempo e inviare un messaggio a quel giovane, probabilmente sarebbe “grazie” e “rilassati e goditi il viaggio. È più lungo di quanto immagini”».
Se c’è un elemento comune nella maggior parte dei suoi romanzi, è che tra i personaggi c’è uno scienziato. Riosservandoli vi nota una direzione?
«Tutta la mia narrativa è intollerante e sospettosa nei confronti dell’idea di poter capire meglio il mondo attraverso le rivelazioni della psicologia. Noi umani siamo così affascinati dai nostri noi stessi privati, ma ci sono così tante cose al di là di noi – tutto! Rifiuto di accettare l’idea prevalente dei nostri tempi, la convinzione che il significato sia una cosa che creiamo per noi stessi: privata, individuale, eccezionale – mediata dalle nostre necessità, sintetica e arbitraria. Il significato è là fuori, nel mondo che vive e ci sorprende. Tutti i miei libri hanno insistito su questo punto. Se c’è una direzione, è verso una comprensione più chiara e diretta del fatto che siamo una piccola parte di un immenso intero, e che quel tutto è più vivo che mai».
So della tradizione per cui l’ultimo Premio Pulitzer per la narrativa chiama quello appena eletto. Dov’era quando Andrew Sean Greer l’ha chiamata?
«Ero seduto sul mio portico nelle Smoky Mountains, a guardare oltre la linea degli alberi, e guardavo le corone dei pini e le querce soffiare nel vento! Ero ancora stordito dall’annuncio e non avevo ancora capito cosa fosse davvero successo. Ho incontrato Andrew Sean Greer molti anni fa, quindi sentire la sua voce è stato come riconnettermi con una vecchia conoscenza. Quando mi ha parlato di questa tradizione che risale a molto tempo fa e forma una catena che collega molti scrittori che ammiro in profondità, è stato forse il primo momento in cui ho pensato: “Beh, immagino che sia davvero accaduto!”. Sarà un grande piacere fornire lo stesso servizio al prossimo destinatario, tra un anno».
Gli altri due autori finalisti al Premio Pulitzer per la narrativa 2019 sono entrambi giovani, Rebecca Makkai e Tommy Orange. Qual è il suo consiglio per uno scrittore che raggiunge un tale riconoscimento così presto?
«Sono due scrittori spettacolari che hanno raggiunto risultati di molto superiori alla loro età. Il mio consiglio è: restate in vita e continuate a lavorare! Se lo faranno, di sicuro cambieranno il volto delle lettere americane e lasceranno il proprio segno sui lettori per un tempo ancora molto lungo».