La Stampa, 21 maggio 2019
In prima linea a Tripoli
Il comandante Mohammad Addarat incrocia le braccia, si alliscia la barba quasi bianca e fa una smorfia di disappunto. «Un giorno Haftar parla di tregua – ribatte –, il giorno dopo di assalto finale. A noi non ci importa nulla di quello che fa e dice. Abbiamo i nostri piani e seguiamo la nostra strada». È mezzanotte passata nel complesso che apparteneva alla polizia ai tempi di Gheddafi, nella parte meridionale del quartiere di Salahddin, a Sud di Tripoli. L’edificio ospita dormitori e una cucina improvvisati, le stanze sono piene di tappeti e materassini dove gli uomini della Katiba 301 dormono e si rifocillano dopo i turni al fronte. È tempo di ramadan e si dorme soprattutto di giorno. La sera, dopo l’iftar, la rottura del digiuno, cominciano i preparativi per i raid notturni. Gli shabab si radunano nel cortile, alcuni ancora in ciabatte, altri con le tute mimetiche e scarponi. Aprono come scatole di sardine le cassette metalliche delle munizioni da mezzo pollice per le mitragliatrici montate sui fuoristrada, e caricano fusti di lubrificante per oliare le armi. Arriva a rifornirsi anche una jeep scoperta, che porta un cannone da 105 millimetri senza rinculo. La guida un ragazzo riccioluto dai lunghi capelli, con occhialoni da aviatore per proteggersi dalla polvere.
Il comandante è orgoglioso dei suoi ragazzi. È in contatto continuo con il comando via radio. Una verifica febbrile sui movimenti dei «tayara bidun tayar», gli aerei senza pilota, i droni emiratini di fabbricazione cinese che hanno fatto strage di mezzi e uomini nelle prime settimane della battaglia di Tripoli. «È vero, ci hanno creato problemi – ammette Addarat -. Ma ora abbiamo le contromisure». Nuovi armi contraeree, pare, in grado di colpire fino a settemila metri di quota. Il comandante resta vago sulla natura dei rifornimenti ma conferma che sono arrivati nuovi blindati: «Così i ragazzi saranno protetti». Sono i Bmc Kirpi di fabbricazione turca, un’ottantina, appena sbarcati al porto di Tripoli da un mercantile arrivato da Samsun, Turchia. Assieme, dicono fonti locali, a razzi anticarro e alcuni lanciatori Stinger, missili anti-aerei portatili. È la risposta di Ankara ai rifornimenti massicci che continuano ad arrivare a Khalifa Haftar dai Paesi del Golfo.
La battaglia è entrata nella sesta settimana. Dalla Cirenaica arrivano segnali contrastanti. Il premier del cosiddetto governo di Tobruk, Abdullah Al-Thinni, ha rivelato che ci sarebbero trattative in corso e che Haftar sarebbe disponibile a un cessate il fuoco «senza precondizioni». L’apertura è arrivata dopo la visita a Roma del maresciallo, giovedì scorso. Un ultimo tentativo per evitare l’assalto al centro della capitale che lo stesso Haftar ha definito «imminente» il giorno dopo la presunta offerta di tregua. È la «fase tre», nelle sue parole, dell’offensiva lanciata il 4 aprile. Per ora è una guerra di attrito che ruota attorno ai quartieri di Salahddin e Abu Salim, con in mezzo l’aeroporto internazionale, chiuso dal 2014. Le forze del maresciallo di sono infilate con una punta di lancia nel saliente costituito dall’area dello scalo, una zona scoperta di 700 ettari, difesa da un lato dalle milizie di Misurata e dall’altro da quelle tripoline.
I due eserciti ne hanno rivendicato più volte la conquista ma la situazione resta confusa. Il comandante Addarat conferma che le forze leali al premier Fayez al-Sarraj controllano l’ingresso dell’aeroporto, mentre il resto è una terra di nessuno. Quando c’è la certezza che non c’è alcun drone sopra di loro, gli uomini della katiba 301 si muovono. La colonna si dirige a tutta velocità verso la caserma di Yarmouk, fino alla scorsa settimana al centro di duri combattimenti. Ora gli uomini di Haftar l’hanno abbandonata. Si vede l’ingresso, crivellato di colpi. Lo stradone che conduce alla caserma è spettrale. Decine di migliaia di abitanti del quartiere di Salahddin hanno lasciato le case, la via è una gincana fra mucchi di terra che rallentano il passaggio, check-point abbandonati, carcasse di auto, una distesa di bossoli di tutti i calibri. Si vede qualche luce. Proprietari che hanno superato i controlli, spesso litigando, per vedere se la casa è ancora in piedi, se è stata saccheggiata. Più a Ovest, oltre la zona industriale detta del «miscelatore», la Katiba 301 cede il passo alle brigate di Abu Salim, una forza tripolina.
Il responsabile del fronte, nome di battaglia Al-Nasr, è sotto i trent’anni, stempiato, con la barba corta e scura come la notte. Si carica con un bicchierino di tè dopo l’altro. È stato lui a guidare l’assalto lungo la strada dell’aeroporto. Alle offerte e alle minacce di Haftar risponde con scherno. «Non siamo a Bengasi, questa è Tripoli, siamo tre milioni di leoni e noi siamo i leoni di Abu Salim. Ti rispediremo a calci a Rajma», cioè al quartiere generale del maresciallo in Cirenaica. Sono state una giornata e una notte sfiancanti. Gli uomini di Haftar sono rimasti al coperto ma hanno martellato Salahddin con pezzi di cannone di grosso calibro, 155 millimetri, e razzi Grad. La parte attorno alla zona industriale è devastata e fumante. Si avvicina l’aurora e il suhur, la colazione prima dell’alba. Il centro di Tripoli è intasato di auto, i mercati sono aperti, i banchi di frutta e verdura affollati. La strana guerra del ramadan sembra non riguardare una capitale che vuole soltanto sopravvivere, a questo punto sotto qualsiasi padrone, purché porti la pace.