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 2019  maggio 21 Martedì calendario

I mostri di Wilcock e Piron

Adelphi dà alle stampe in contemporanea due libri che risuonano nelle zone sensibili delle menti soggette al fascino del mostro, quell’entità composta di angelicità, terrore, stranezza, disponibilità e spiritualità tutte mischiate insieme e che rimanda, sulla sua superficie impenetrabile, la stessa immagine umana. Si tratta de Il libro dei mostri di J. Rodolfo Wilcock e di Dialettica del mostro. Inchiesta su Opicino de Canistris di Sylvain Piron.
Di Wilcock, della sua selvatichezza furente, si sa ormai quasi tutto: originario di Buenos Aires, nel 1957 si trasferì a Roma e poi nel ’60 a Velletri, da dove coltiverà il suo gusto da giostraio della parola votato all’irragionevole e al sarcastico, al perturbante e al rigoroso. I mostri di Wilcock tornano a inquietare (questa è una riedizione del volume di Adelphi del 1978) e a mostrarsi, appunto, a noi come a una specie di spietato pubblico da fiera, mentre l’autore li ostenta in una tassonomia malinconica. La Spoon River dei mostri umani degenerati e abbandonati che subiscono metamorfosi, amputazioni e accrescimenti carnali o semplicemente si allontano dal mondo, come Wilcock, per cuocersi dentro la loro bizzarria, è ipnotica: due per tutti, il meccanico Fizio Milo, “una persona così modesta che a poco a poco è scomparso quasi del tutto, soltanto è rimasta in un angolo dell’officina una specie di fosforescenza diffusa” e ora passa il tempo “a contare alla luce di sé stesso quante lenticchie ci sono nel libro di Daniele o nei Giudici, quanti elefanti ci sono nei Salmi (nessuno)”; e il musicista Sligo, di cui “qualcosa è rimasto”, “ma che cosa sia non si vede bene, tutto il suo corpo è come avvolto in una specie di schiuma rosea appiccicosa… la testolina indiscernibile nel suo cappuccio di bava”.
Sylvain Piron è un medievalista che ha dedicato anni a cercare di decifrare il materiale autografo, riportato alla luce dai bibliotecari vaticani, di un certo Opicino de Canistris, nato a Pavia nel 1296, miniatore e scriba per conto del papato a Avignone.
Opicino è un mostro meraviglioso: affetto, secondo gli studiosi di oggi, da “parafrenia fantastica”, nel corso del travagliato e schizofrenico 1300, tra indulgenze, simonia e cattività avignonese, scrisse un diario angoscioso sulla sua vita “da bestia” e disegnò tavole disturbanti e surreali, ispirate alle mappe dei cartografi genovesi, nelle quali la topografia classica si ibrida con figure antropomorfe, organi, vene, creature deformi, sangue, latte.
“Ero nella lotta della carne”, scrive Opicino, “nutrito in mezzo alle bestie” (che sono poi gli umani, dei quali aveva terrore), sopra le distese marine che solo due secoli dopo sarebbero state solcate dalle pance delle navi spagnole. Il Mediterraneo rigurgita di anatomie bizzarre; l’Africa delimita il corpo di una donna-Europa nuda, vestita di stivali che occupano il Sud Italia e la Dalmazia; il ventre insanguinato, sito in Lombardia, contiene il feto di una piccola Europa che sta per nascere per parto cesareo nel golfo di Genova; altrove, il pugno di un braccio risale l’Adriatico e assale le parti intime della donna nella laguna veneziana, e un sesso maschile in erezione eiacula sul litorale di Alicante, lungo la costa aragonese, appoggiato al collo della donna. Considerando che partoriva le sue creazioni mentre Dante moriva, la mente morbosa e surrealista di Opicino allibisce e affascina.
L’occasione di poter disporre insieme del trattato mostruoso di Wilcock e della cosmogonia deviante e feticistica di Opicino è imperdibile: un’entrata dentro due camere delle meraviglie separate dai secoli e unite dall’ossessione e da umanissima grazia. Wilcock: “Chi riesce a fare questo deve senz’altro essere bello, per quanto schifo possa fare la sua apparenza generale”. Opicino: “Chi sono io? Sulla mia schiena, il grande fiume Danubio, da Dan che significa giudizio e dubium, come tutti i giudizi di cui dubito”.