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 2019  maggio 21 Martedì calendario

Biografia di Enrico Rava raccontata da lui medesimo

La star in questo momento è già in tour per festeggiare i suoi traguardi. Un’energia incredibile Enrico Rava, re della tromba italiana nel mondo. Tra una data e l’altra – da Gorizia il 2 giugno a Eilat in Israele il capolinea, passando per Varsavia – eccolo transitare una mattina per Milano. Dove davanti allo skyline della città che si può ammirare dalla modernissima piazza Gae Aulenti, accetta di parlare di sé, della sua vita, delle sue avventure con lo strumento e non solo, tra un continente e l’altro. 
La narrazione diventa un bell’assolo ripensando ai suoi primi 80 anni: l’incontro che più lo ha sorpreso è stato con Sergio Marchionne che gli ha fatto visita in camerino. Il piatto che gli suona meglio è la maionese («di cui vado molto ghiotto e che so fare bene. La ricetta della nonna però, ci tengo a precisarlo»). Se non fosse diventato un big del jazz avrebbe fatto lo scrittore.
Nel gioco delle preferenze, tra i suoi modelli Miles Davis e Chet Baker chi butterebbe già dalla torre?
«Nessuno, piuttosto mi butterei giù io. I padri non si uccidono, e comunque non ci sono solo loro. Ci sono i nonni, come Bix Beiderbecke, che è stato il mio primo amore quando avevo nove-dieci anni, e Louis Armstrong, uno è il sole l’altro è la luna».
Dunque i suoi maestri...
«Sì, ma sono stato anche un autodidatta, perché ai miei tempi era molto facile essere autodidatti. Non c’erano scuole di jazz. Come dire, ognuno trovava il suo modo. Ho iniziato tardissimo, avevo quasi 18 anni».
E come si è arrangiato?
«Cercando di copiare le cose più facili di Miles. Tutto questo senza sapere nemmeno il nome delle note che suonavo. L’ascolto è la cosa più importante in assoluto».
Il primo approccio?
«Nel ventre di mia madre, Andreina, che era una pianista classica di origine svizzera, suonava molto bene, era diplomata al Conservatorio. Quindi in casa c’è sempre stata musica». 
Perché la tromba?
«Da ragazzo di Davis avevo tutti i dischi, quando l’ho visto a Torino a un concerto con Lester Young mi sono detto devo suonare così».
Ma in casa magari tirava un’altra aria...
«In qualche modo sì, ma molto prima, poi ci siamo ripresi. Sono del ’39. La mia è stata un’infanzia dove non c’era da mangiare. C’era la guerra, c’erano i bombardamenti e venivano giù le case. Siamo andati in Piemonte, sfollati; in particolare a Torino, l’ultimo anno del conflitto».
Vita dura...
«Ogni notte suonavano le sirene, mio padre voleva andare nei rifugi e mia madre no, scoppiavano continui litigi. Per me invece era normale, la quotidianità, non mi rendevo conto».
Mai avuto paura, neppure una volta?
«Quando eravamo rifugiati in campagna sì. Ero terrorizzato dalle oche, tutte le volte che attraversavo il cortile mi assalivano come un sol uomo. Le oche sono perfide sa?».
È la vita della campagna.
«Sì, ma io sono nato a Trieste appunto, dove papà Giacomo faceva il doganiere. Quando è scoppiata la guerra è andato al fronte, era un ufficiale. Ogni tanto tornava in licenza e non lo potevo nemmeno toccare talmente era pieno di pidocchi».
Tante privazioni?
«Il pane vero l’ho visto con gli americani. Il pane che c’era era quello di riso, una specie di blocco di pietra. Con l’arrivo degli alleati ho visto il prosciutto. Poi l’incontro con il jazz attraverso mio fratello Carlo che poi ha fatto il commercialista; si è comprato i primi dischi 78 giri, prima dell’avvento del vinile, duravano tre minuti e mezzo a facciata».
All’inizio che scelte ha fatto?
«Quando sono diventato più grande, a un certo punto ho deciso di andare per la mia strada proprio per la musica. Ed è stato un vero dramma familiare».
Cioè?
«L’idea dei miei era che io dovessi prendere una laurea, fare l’avvocato. Ma io ero intrippato già allora col jazz e leggevo moltissimo; però a scuola andavo molto male».
Non le piaceva studiare?
«Mi hanno bocciato e non ho finito le superiori, ero diventato la pecora nera della famiglia».
Quindi a lavorare...
«Mio padre e mio zio avevano messo su una ditta, a sedici anni sono stato obbligato a dare loro una mano. E siccome ero destinato a diventare uno dei proprietari, dovevo fare la gavetta, iniziare dal basso per formarmi».
Com’è andata?
«Era un lavoro che detestavo, non capivo quello che stavo facendo, mi vedevo in un tunnel senza via d’uscita. E ancora ragazzo sono arrivato a fumare due pacchetti al giorno; a 60 anni quattro. Poi per fortuna ho smesso».
Ma non c’era qualche consolazione?
«Stavo con Paola, una ragazza che mi piaceva moltissimo. Nel frattempo mi sono comprato una tromba, un ferro vecchio. E ho cominciato, mi chiamavano spesso, di colpo mi sono trovato a suonare con Gato Barbieri, fino a Steve Lacy che mi ha portato a New York».
E i suoi?
«Mia madre per farmi contento mi aveva regalato una spider rossa che però faceva un rumore terribile, insopportabile. Dopo sei, sette mesi l’ho detto chiaramente ai miei e ho cambiato macchina. Mi sono preso una 500, mi sembrava di avere una Rolls Royce».
Certo che lei non le manda a dire...
«Credo nella sincerità, nel confronto. E, anche se penso di essere fuori moda, credo molto nell’onestà, che in giro c’è pochissimo. Del resto gli uomini sono fatti così. Come il razzismo che è insito nelle persone, aspetta solo il momento di manifestarsi». 
Porti una «prova».
«L’ho vissuto direttamente quando abitavo e suonavo a New York. Frequentavo molto il giro degli africani. Spesso andavo ai party dove mi portavano loro, c’erano musicisti e diplomatici. Quando bevevano finiva in rissa per motivi tribali, qualcuno che era zulu litigava con un altro gruppo».
Un mondo complicato?
«Quello del jazz lo è sempre stato. In Italia, a vivere di jazz, eravamo in pochissimi. Non esistevano possibilità. Eravamo io, il pianista D’Andrea e Rotondo, che lavorava in Rai. Insomma fare il jazzista era come fare il cow boy, il pioniere».
Di strada ne ha fatta: a che punto è?
«Ora ho fatto un nuovo disco Ecm, in quintetto con Joe Lovano che dovrebbe uscire presto. Il titolo dovrebbe essere Live in Rome, un concerto del novembre 2018».
Il 20 agosto compirà 80 anni. Che cosa farà?
«Festeggerò in maniera semplice. Voglio continuare così, a suonare bene, sino alla fine dei miei giorni. Seconda opzione (ride divertito il maestro, ndr) andare nei parchi a dare da mangiare ai passerotti».
Oppure...
«Cercherò di scrivere un altro libro, altre pagine sui ricordi. Ho già pubblicato un’autobiografia, ma ho parecchie cose da aggiungere».
Per esempio?
«Che ho avuto molta fortuna e ho vissuto un momento magico».
E il talento?
«Sì anche quello ci vuole ma bisogna studiare, io lo dico sempre ai giovani, se non studi rischi di finire nel fosso. Io sono autodidatta totale, ma bisogna darsi da fare per crearsi le difese che sono necessarie».
Questo vale nella vita in generale?
«Assolutamente sì. Mi sono fatto da me e mi è andata bene. Mi sono buttato sui libri da solo, sono onnivoro e leggo sempre. E quando posso regalo libri».
E pure dischi di jazz.
«Non necessariamente, mi piace tutto: la musica classica, la contemporanea, il funky, la brasiliana e il pop, sino a Lady Gaga e Michael Jackson».
Ma è la sua musica che ama di più.
«Anche perché è un elisir di lunga vita. Penso a Dino Piana, un trombonista a pistoni che ha 89 anni, suona da dio, quando posso lo chiamo. Condivide la mia visione».
Una visione che ha avuto riconoscimenti istituzionali?
«Sono cittadino pure di Atlanta negli Usa; Cavaliere delle arti e delle lettere della Repubblica francese. Ho la laurea honoris causa della Berklee School di Boston. Sono cose che non dico mai perché non me ne frega niente. Il vanto non porta da nessuna parte».
Lauree a lei, che non amava la scuola...
«Mi ha fatto molto piacere, alla consegna della pergamena l’ho detto chiaramente che quello era l’unico modo per avere un dottorato, visto che sono così refrattario agli studi regolari. E molto indisciplinato e pigro».
Pigro? Ma se gira il mondo e non si ferma mai.
«Ho fatto molti traslochi. Tra i ricordi c’è quello della partenza da New York, quando ho lasciato a una amica, la ragazza di Naná Vasconcelos (percussionista brasiliano scomparso nel 2016, ndr), tutti i miei Lp, erano migliaia, con dei pezzi rarissimi».
Magari non è attaccato alle cose materiali. Alla famiglia?
«Mi sono sposato, mia moglie si chiama Lidia, ha ventidue anni meno di me. Faceva la costumista, il suo ultimo film è stato con Monicelli. Non ho figli. Non ho la vocazione del padre. Se oggi avessi un figlio di vent’anni sarei preoccupato per il suo futuro».
L’idea della coppia?
«Credo molto nell’amore tra le persone. Occuparsi della famiglia, tenere in piedi una storia, una casa è fantastico. Vale per la donna e l’uomo. Che può benissimo farlo lui il casalingo se lei è in carriera».
Un po’ per uno?
«Io la penso così oggi, nella mia famiglia quando ero ragazzo è stata mia madre a tirare avanti tutto, e lo ha fatto benissimo».
Altri tempi, tutto cambia...
«Anche nella musica ho visto enormi cambiamenti, soprattutto nel pubblico. Negli anni ’70 in Italia dopo un live di Santana finito con una bottiglia molotov sul palco, non hanno dato più permessi per i mega concerti rock. Il popolo dei saccopelisti si è riversato su Umbria Jazz dove, quando ho suonato in quel periodo, c’erano 60mila persone».
L’incontro memorabile...
«Non posso dimenticare Miles Davis a un mio concerto, era in prima fila. Mi sono preso una vagonata di tranquillanti, per l’emozione. Lui è stato molto carino con me. Siamo rimasti a lungo a chiacchierare».
Nessun manager o politico?
«Come no, Sergio Marchionne: qualche anno fa facevo un concerto a Torino. Ero in camerino, bussano e apriamo. Era lui: mi ha fatto dei grandi complimenti, era un appassionato di jazz».
Momenti da ridere...
«Grandi risate con e grazie al comico Fiorello, di cui sono estimatore. Bella l’imitazione che ha fatto col personaggio Paolo Fava, invece di Enrico Rava. Poi ci siamo esibiti in duo. Mi spiace non vederlo».
Se vuole c’è la televisione, no?
«Mi pare che non faccia niente da parecchio. Poi non ho la tv da almeno trent’anni. Ed è per questo che leggo tantissimo».
Le interessa la politica?
«Da giovane sull’argomento ero caldo. A mano a mano mi sono raffreddato. Oggi quello che vedo mi preoccupa».
Chi vorrebbe alla guida del Paese?
«Non sono fanatico, ideologico. Quando qualcuno va al governo, anche se non rappresenta le mie idee, spero che gli vada bene. Contano i risultati».
Ancora più su, nei cieli?
«Se parliamo di religione, non sono un praticante. L’apparato costruito intorno alla fede non mi interessa. Sono agnostico, spero. Spererei».
Un domandone: che cosa ha capito della vita?
«Niente
, me la sono vissuta bene».