La Lettura, 19 maggio 2019
Il rock in 130 strumenti
«Suonala forte». Verrebbe da aggiungere Sam, il pianista di Casablanca, ma lui era più per i bis, qui sta meglio Jimi (Hendrix), il chitarrista con l’aureola pop di capelli afro. Perché Play It Loud, sottotitolo Instruments of Rock & Roll, la mostra al Metropolitan Museum di New York fino al 1° ottobre, celebra più le atmosfere elettriche create dalle chitarre che quelle romantiche favorite dal pianoforte. Anche se le tastiere non mancano in quest’esposizione di strumenti musicali che si fa largo per la prima volta nel tempio dell’arte sulla Fifth Avenue, alcuni provenienti dal dipartimento del museo che, nello specifico, vanta 5 mila pezzi da ogni continente e cultura. Percussioni, sitar, sassofoni, chitarre e pianoforti, sono oltre 130 i pezzi in mostra, in rappresentanza di oltre 80 interpreti. Più costumi di scena, 40 manifesti vintage di concerti, filmati di performance. Arco di tempo raccontato: dal 1939 al 2017.
È la storia di una musica che ha terremotato la cultura e la società del suo tempo attraverso gli strumenti che le hanno dato voce. Voce alta, perché a volte per farsi sentire bisogna aumentare il volume. Lo sapevano bene i protagonisti selezionati dal Met che, complici le nuove tecnologie, hanno dato fiato e watt a quello che avevano da dire. Memorabile l’improvvisata, «sovversiva» interpretazione di Hendrix di The Star-Spangled Banner, l’inno nazionale americano a Woodstock, nel 1969, protesta senza parole contro la guerra del Vietnam. E per assicurarsi più visibilità i musicisti hanno anche decorato chitarre e pianoforti come opere d’arte, fino a distruggere gli stessi strumenti – vedi Pete Townshend degli Who – magari dandoli alle fiamme, come fece Hendrix sul palco del Festival di Monterey che a metà giugno del 1967 inaugurò la «lunga estate dell’amore». I resti ustionati della Fender Stratocaster – pare un modello simile a quella vera che Jimi risparmiò – giacciono al museo Experience Music Project di Seattle, la città natale del chitarrista, mentre al Metropolitan brilla la Gibson «Love Drops» Flying V a coda di rondine, dipinta con lo smalto per unghie. La sentite graffiare nell’assolo All Along the Watchtower (autore Bob Dylan) di Electric Ladyland, usata al contrario, compreso l’ordine delle corde, dal mancino Hendrix. Lo stesso modello imbracciato da Neil Young per accompagnare le parole di Harvest (1972).
Molto fotografata anche «Blackie», la chitarra (bianconera) di Eric Clapton, con lui nei decenni Settanta e Ottanta. E La Martin D-18 di Elvis Presley, pizzicata nelle leggendarie sessioni di registrazione nel Sun Studio di Memphis (1955); che si riconosce subito perché The King – non si sa mai – ci appiccicava sopra un adesivo con il suo nome (è andata via solo la «s»). Ci sono poi i modelli «geneticamente modificati» a doppio manico – la Gibson di Don Felder per Hotel California — o addirittura a cinque (Hamer Guitars, 1981); la Rickenbacker a 12 corde che John Lennon usò alla prima partecipazione dei Beatles all’Ed Sullivan Show, nel febbraio del 1964. O «edizioni» speciali come il basso della Born To Rock Design Inc. del 1995, in alluminio per superare le distorsioni del legno e la Cracked Mirror Iceman, suonata da Paul Stanley dei Kiss, con il corpo coperto da frammenti di specchio per riflettere le luci della ribalta come la mirror ball nelle discoteche della Febbre del sabato sera.
Unica concessione del curatore della mostra al genere pop è il piano elettrico con cui Lady Gaga accompagnò la sua canzone Artpop al Tonight Show Starring Jimmy Fallon (2014): in acrilico, plastica, legno e metallo, è rosa e trasparente con led interni.
Uno che la tastiera l’azionava saltandoci anche sopra era Jerry Lee Lewis, americano della Louisiana, detto non a caso The Killer, risparmiando però il piccolo esemplare esposto, di sua proprietà: Gold Baby Gran Piano perché verniciato d’oro. Idem Keith Emerson (Lake&Palmer…) che teneva premuti i tasti perfino con i coltelli: esposti l’organo elettrico Hammond L-100 e il moog dell’assolo di Lucky Man. Il moog, detto anche sintetizzatore, irruppe nella colonna sonora dei nostri anni Settanta; da noi lo sdoganò Federico Monti Arduini, in arte Il guardiano del faro (hit: Il gabbiano infelice). L’allestimento al Met lo colloca giustamente nella sezione Expanding the Band insieme a Mellotron, i prodotti della Arp e della Wurlitzer (quella dei juke-box), perché oltre che oggetti iconici di design, questi nuovi ritrovati tecnologici affiancarono strumenti virtuali a quelli veri.
Tra i fiati luccica il sassofono Selmer Mark VI stretto da Clarence Clemons, sul palco con Bruce Springsteen e la E Street Band, soprattutto al momento di Jungleland e Rosalita (Come Out Tonight). Il Boss campeggia, di spalle, le sneakers appese alla chitarra, nel manifesto creato per il Born to Run Tour (1975) nella sezione Iconic Moments che, insieme a quella intitolata Creating an Image, dimostra come il rock & roll fosse una rivoluzione anche nella moda e nella grafica. I poster dalle linee psichedeliche degli anni Sessanta che citano Doors, Grateful Dead, Who e ancora Hendrix sono affissi accanto a quelli di Bob Dylan, Led Zeppelin, Beatles. Tutti fratelli, perché a un certo punto, come cantava il grande bluesman Muddy Waters: «I blues ebbero un bambino e lo chiamarono rock & roll».