Libero, 20 maggio 2019
Parla Igor il Russo: «Il carcere è solo un’altra avventura»
«Da adesso in poi sei autorizzata al colloquio con me in carcere. Ricordati che qui siamo in mezzo ai Pirenei, non c’è nulla intorno…». Le indicazioni fornite dal detenuto più famoso di Italia e Spagna, mi rimbalzano in testa mentre osservo dal finestrino dell’auto che percorre l’Autovia A 23, le aride colline scavate lungo gli affluenti dell’Ebro, e la rara vegetazione spettinata dall’incessante vento. È domenica mattina, alle undici ho lasciato Saragozza per raggiungere il penitenziario di massima sicurezza a Zuera, nel cuore del paese iberico. Dopo mezz’ora di strada finalmente la struttura mi appare imponente davanti. È una sorta di cattedrale nel nulla circondata da un filo spinato, in un paese di neppure settemila anime. Qui mi aspetta Norbert Feher Ezechiele, più noto in Italia come Igor, “Igor el Ruso”, come lo chiamano da queste parti. Qualcuno lo ha ribattezzato “el loco”, cioè il pazzo, perché prima di essere catturato ha ucciso tre guardie civil spagnole. Anche in Italia il criminale serbo nato a Subotica (città al confine con l’Ungheria) 38 anni fa, ha seminato puro terrore: dopo aver ucciso nell’aprile 2017 Davide Fabbri, un barista di Budrio (Bologna) e poco dopo la guardia volontaria Valerio Verri (due delitti per i quali di recente è stato condannato all’ergastolo), è riuscito a far perdere ogni traccia di sé per otto mesi. Un fantasma inseguito invano da centinaia di carabinieri e poliziotti impegnati a dargli la caccia come a un latitante inafferrabile, dalle paludi del Ferrarese fino ai casolari dell’Aragona. Addirittura nelle campagne dell’Emilia Romagna, da Bologna a Ravenna, ha tenuto per mesi la gente col fiato sospeso. In tanti in quel periodo si chiudevano in casa col timore di trovarsi nel cortile il freddo e solitario killer più ricercato al mondo.
PIÙ VIVO CHE MAI
La sua fuga, insieme alla sua parabola di morte, dopo la sua cattura a Teruel seguita dal conflitto a fuoco con le guardie civil, è finita qui, nel silenzio assordante di questo carcere sperduto tra i Pirenei. Eppure anche nella vicina città di Saragozza, a chi chiediamo notizie sul carcere di Zuera, il suo nome appare vivo più che mai: «Algunos, el penitenziario que aloja Igor» («Certo, è il penitenziario che ospita Igor»). «Norbert è un personaggio che ancora raccoglie molto interesse, i giornali pressano per avere sue notizie», ci conferma il suo avvocato Juan Manuel Martin Calvente, che gentilmente si è offerto di accompagnarmi da Saragozza fino a Zuera. Dal giorno del suo arresto, da metà dicembre 2017, quello che è considerato oggi il più pericoloso degli assassini, non ha mai ricevuto visite in carcere tranne quelle del suo avvocato. Io sono dunque la prima persona con la quale rompe il suo quotidiano isolamento accettando di farsi intervistare. Nonostante sia rinchiuso in cella in uno stretto regime di isolamento, nonostante non possa entrare in contatto con altri detenuti, Norbert fa ancora paura. È considerato un predatore feroce, è badato a vista da quattro guardie carcerarie. Quando esce per l’ora d’aria ha sempre le manette, non può guardare la tv, né ascoltare la radio. Può solo leggere. E lui ogni giorno inghiotte pagine della Bibbia e di fumetti. In tanti mesi di scambi epistolari ho imparato a conoscerlo: parla bene sei lingue, tra cui cinese, russo, romeno e italiano, è di fede cattolica nonostante abbia ucciso cinque persone e nonostante la sua storia criminale sia un’escalation che racconta di un rapinatore bizzarro, a tratti impacciato, divenuto killer spietato, multiplo nelle identità e multiforme nei comportamenti. Seduti pazienti su un muretto davanti al penitenziario, in attesa di entrare, notiamo i familiari di altri detenuti arrivati in largo anticipo. Ci sono spagnoli, messicani, quasi tutti giovani tranne una mamma già con le lacrime agli occhi. L’avvocato mi fa strada. Dimentico lo stress del lungo viaggio dall’Italia. Tra poco avrò l’incontro. La tensione è alta, tiro un respirone. L’esperienza umana e professionale è forte. Già. Quando mai mi ricapiterà di intervistare un assassino che da anni non parla con nessuna persona al mondo? Entriamo nell’atrio. A sinistra c’è una grande stanza d’attesa per i bambini, circondata da vetrate. All’interno ci sono giochi ovunque, cuscini, piccole sedie colorate. Il ferro delle strutture è verniciato di un allegro colore verde chiaro, la luce penetra un po’ ovunque grazie a un gioco di vetri che circonda anche un cortile interno al centro dell’atrio. «Ok, è autorizzata da Madrid. Aspetti qui, la chiamiamo noi». Spiega un agente allo sportello. Tutto a posto. Meno male. Del resto Norbert, qui chiamato codice Nis 201716... (me lo ha inviato per sicurezza due mesi prima in una delle sue lettere), ha organizzato tutto per questa visita in carcere: dall’istanza con l’ok del giudice di sorveglianza, al depliant con le istruzioni del carcere fino ai numeri telefonici da chiamare persino per prenotare il pullman. Ha anche studiato ogni eventuale inghippo del mio viaggio. È un grande pianificatore, certo, lo si intuisce. Diversamente, forse, non avrebbe potuto farla franca in tutti quei mesi di fuga.
I CONTROLLI
«Non può portare nulla dentro, lo sa la signora?». S’affaccia di nuovo l’agente solo apparentemente severa. «Puoi chiedere se posso entrare almeno con un foglio e una penna?». Domando preoccupata al legale. Ma niente, il no è senza replica. Anche un foglio è considerato pericoloso qui con Norbert... Pazienza. Provo un piano “B”, cerco di scrivermi una sorta di promemoria delle domande sulla pelle, ma la penna non marca abbastanza. Mi arrendo, mi sto innervosendo troppo. Devo stare tranquilla e concentrata. È quasi l’una. «Es tiempo». «È ora». Insieme ai familiari rimasti come me nella sala di attesa, mi avvio in una stanza per passare tutti i dispositivi di controllo. Poi col gruppo attraverso un corridoio che porta in un enorme spazio all’aperto, circondato da filo spinato. Le due guardie aprono la grande porta di ferro e ci troviamo nel cortile dei detenuti, quello dell’ora d’aria. Lo attraversiamo camminando in silenzio. Tra i familiari dei detenuti, la maggior parte rinchiusi qui per omicidi, c’è chi ogni tanto mi squadra da cima a fondo e mi fissa curioso come fossi un ospite nuovo non annunciato. Finalmente entriamo nell’ultima ala del penitenziario. Dietro di me la grande porta scorrevole a sbarre si chiude. A destra c’è la stanza degli agenti, circondata da vetri. Intorno tante gabbie di vetro numerate, ciascuna con due sedie e un divisorio. Ogni volta che le guardie chiamano il detenuto per nome, questi appare e si siede nella cabina assegnata. Passano almeno quindici minuti, io resto in piedi ad aspettare il mio turno. L’ultimo. Vedo entrare un ragazzo con le manette ai polsi. Si siede a testa bassa, non riesce a parlare nonostante il fratello, un bestione alto due metri tutto muscoli e tatuaggi, lo sproni impaziente a dire qualcosa. La madre, un donnone dai lineamenti marcati, smette di asciugarsi le lacrime e si sente male. Chiede alla guardia di poter uscire ma il regolamento non lo permette. Dimentico per un attimo Norbert, cerco di farla camminare e respirare. «Le manette, perché me lo fanno vedere con le manette...», si sfoga in spagnolo. Poi torna alla sua gabbia, dal figlio che ora sembra uscito dallo stato di trance e ha iniziato a parlare. Rientro nel mio angolo, sono rimasta solo io senza cabina assegnata. Osservo una guardia che disegna un foglio con un righello. Tutto qui scorre più lento, il tempo conta ben poco. Nessuno ha fretta. Ogni tre secondi butto l’occhio in direzione della porta d’ingresso dei detenuti. Qualcuno grida. «Norbert Feher Ezechiele». Ci siamo, mi dico, tocca a me. Noto da lontano un gruppo di persone. È Norbert scortato da quattro agenti di polizia penitenziaria che si fanno da parte dietro di lui solo quando mi appare davanti alla cabina. Eccolo qui “Igor il Russo”. Ha il viso pallido, i capelli appena tagliati, il volto sbarbato. I suoi occhi azzurro-verde chiaro sono biglie trasparenti, quasi di ghiaccio. Dentro alla sua maglietta marrone un po’ troppo ampia, nasconde i muscoli ben allenati, frutto di ore di flessioni quotidiane nella sua isolata cella. Ai polsi ha le manette. Ci divide un vetro. Resta in piedi, poi tenta di parlarmi attraverso un apparecchio telefonico bianco, collegato a un filo e ad un microfono sistemato dalla parte della mia cabina. «Ciao, mi senti?». La sua voce calma, rilassata, sembra arrivare da un continente lontano, non riusciamo a dialogare. Si gira deciso verso le guardie appostate dietro di lui, batte tre volte il dito sulla cornetta e dopo una manciata di secondi il problema è risolto: «Spostiamoci», mi ordina gentile.
L’INIZIO
«Mi senti ora?», mi chiede. «Sì», rispondo, «Ti sento. Grazie per avermi permesso di incontrarti». Il nostro colloquio in carcere inizia così, seduti di fronte mentre dialoghiamo tra un vetro, attraverso una cornetta telefonica difficile da manovrare per via delle manette. Lo osservo mentre parla lento, con un inaspettato fare educato che stride con l’immagine di spietato e pericoloso assassino che la sua vera storia al contrario dipinge. Parliamo del più e del meno, con le manette che mi sventolano sotto il naso. «A me non danno fastidio», dice quasi mi avesse letto nel pensiero, «sono abituato, le porto tutto il giorno». Fa una smorfia, poi abbozza un sorriso ironico che lo accompagnerà per tutti i quaranta minuti della mia visita. «Me le tolgono solo quando sono in cella…». Norbert ha il fare sicuro, è apparentemente distaccato anche quando parla dei suoi familiari lasciati a Subotica, anche quando racconta di sua madre, Jene Zuzana, che non vede ormai dal lontano 2001, da quando ha lasciato la Serbia ancora giovanissimo. Resta impassibile, a tratti freddo, sicuro di sé e capace di farsi scivolare addosso qualsiasi martirio. Ogni tanto, con un dito, fa salire sul naso i piccoli e leggeri occhiali rettangolari che gli danno un’aria da paziente impiegato. «Da quando sono qui dentro – lamenta rassegnato – ho perso almeno un grado in ogni occhio». A guardarlo bene, ora non somiglia a nessuno dei tanti personaggi che questo eclettico killer ci ha abituato a vedere attraverso i suoi infiniti travestimenti. «La Spagna somiglia un po’ all’Italia... Io conosco bene la costa….». Certo, non a caso durante la fuga si era rifugiato proprio lì. Mi ringrazia per la Bibbia che gli ho fatto consegnare insieme ad alcune buste e lettere per scrivere. Lo chiamo Igor per sbaglio, lui spalanca gli occhi e mi guarda con disappunto. Chiedo scusa e proseguo. «Norbert, vorrei farti alcune domande per scrivere un articolo sul mio giornale in Italia. Posso iniziare?». «Certo che sì, te l’ho scritto, sono d’accordo». Mi risponde facendo un balzo in avanti sulla sedia. Il suo viso è disteso, sembra apparentemente sereno, quasi divertito.
Perché hai ucciso tutte quelle persone?
«Per difesa. Quando vengo attaccato reagisco. Mi scatta questa cosa».
Sì ma difendersi non significa necessariamente uccidere…
«Sono stato addestrato così, durante il servizio militare in Ungheria. Sono stato lì un anno e mezzo circa, ho imparato a difendermi a costo di uccidere. Con i delitti in Italia le cose comunque non sono andate come dicono: quando Ravaglia (l’agente rimasto ferito nell’agguato a Ferrara, ndr) è uscito dall’auto, aveva la pistola per metà fuori, mentre Verri è uscito dall’auto della polizia provinciale in uniforme urlando che avevo sparato al suo collega. Questo mi ha fatto pensare che non poteva che essere armato... Solo dopo mi sono accorto che non lo era. Per me comunque si è trattato di una difesa».
Pensi mai alle mogli, ai figli delle persone che hai ucciso e che soffrono per causa tua?
«Sì, ci penso. Penso che mi dispiace di aver fatto loro del male involontariamente. Ripeto: involontariamente».
Sei pentito?
«È tutto scritto, il mio destino è tutto scritto. Tutto quello che mi è capitato non è stato a caso».
Aspetta, ti rigiro la domanda: se potessi tornare indietro rifaresti quello che hai fatto?
«Solo in parte».
Spiega.
«Nel senso che alcune cose le eviterei. Sono stato arrestato perché con l’auto sono finito nel fosso. Ho battuto la testa, dovevo per forza fermarmi. Ecco, se potessi tornare indietro anziché a destra verso le guardie civil, andrei a sinistra».
Cosa vorresti dire ai parenti delle vittime che hai ucciso?
«Mi spiace se ho fatto loro del male indirettamente. Niente altro».
Sì ma non mi hai risposto. Sei pentito?
«Solo in una piccola parentesi».
Ammazzeresti ancora?
«Sì, se è necessario. Sono stato addestrato così. In certi casi il male è indispensabile».
In cella preghi 5 ore al giorno. Ma uno dei comandamenti dice “non uccidere…”.
«C’è anche il perdono. Comunque io continuo a seguire la parola del Padre Eterno».
Hai mai pensato o provato ad avere una vita normale, con una moglie, dei figli, un lavoro onesto…
«Certo, ci ho provato e mi sarebbe piaciuto, ma mi è andata male. Invece con le donne sono stato sfortunato».
È vero che ti sei sposato in Italia nel 2006 e che hai un figlio e una figlia rimasta uccisa per ritorsione contro di te?
«Non è vero. Che sappia io non ho figli».
Perché Igor e perché tutti quei travestimenti?
«Igor è un nome che mi piaceva. Mi travestivo perché amo avere tante personalità».
Per non averne nessuna…
«Forse sì, ad ogni modo mi piace conservare il bambino che c’è in me».
Sei stato in Italia nove anni. E da 18 non vedi tua madre, i tuoi fratelli e sorelle. Perché?
«Perché per digerire certe cose serve tempo. C’è un tempo per tutto».
In Italia ti hanno appena condannato all’ergastolo, qui in Spagna ti aspettano altre pesanti pene. Come ti vedi a 70 anni?
«Non mi vedo, non ci penso. Tra un’ora, uscendo da qui, potrebbe venirmi un infarto».
Hai dato il tuo consenso all’estradizione in Italia. Meglio il nostro carcere?
«Per certe cose sì, per altre no. Per le visite, ad esempio, ci sono possibilità di avere incontri intimi cosa che in Italia non accade. Il cibo non è male, la sanità è meglio in Italia. Ad ogni modo questo è uno dei migliori carceri spagnoli».
Quindi vorresti tornare in Italia?
«Io ho già dato il mio ok e ho la decisione del giudice di Madrid in mano solo che è sospesa. Penso che mi trasferiranno in Italia magari dopo il processo».
Ti hanno sottoposto a molte perizie, il quadro che è emerso è quello di una persona molto pericolosa…
«Per questo mi aspettano almeno cinque o sette anni di isolamento. Ma io sono sereno».
Come fai ad essere sereno se vivi isolato, senza poter avere contatti con nessuno, senza poter ascoltare una radio o guardare la tv?
«Lo accetto. Per chi sta fuori e ha tutto, la mia è una condizione non immaginabile da vivere; ma per me è quasi normale. Sono davvero sereno, non mi pesa il carcere. Stavo forse peggio quando ero fuori, durante la fuga. Se non fosse così, sarei imbottito di farmaci come molte persone qui dentro».
Su di te è stato scritto anche un libro…
«Sì l’ho letto, ma molte cose scritte non appartengono a me, non sono vere».
Non c’è nulla che ti manca qui?
«Vedere i cartoni animati di Dragon Ball e ascoltare la radio».
Hai una piccola cicatrice al naso…
«Questa?» (se la tocca), «una sciocchezza, è capitata al momento del mio arresto. Ho riso...».
Che effetto ti fa essere considerato uno dei più pericolosi assassini?
«Non sono il killer descritto, freddo venuto dall’Est. Sono altro. Ma a me importa poco quello che pensa la gente. Non devo piacere a nessuno. Sai qual è l’unica cosa che mi dispiace? Il fatto che mi hanno sequestrato la mia Bibbia originale con le preghiere, che per me aveva un valore inestimabile. L’avevo salvata in fuga con i poliziotti in Italia, e sempre per salvarla sono tornato indietro e ho spazzato via due guardie civil».
Ti sei fatto catturare?
«Era destino che capitasse, non potevo fare altro. Però questo è successo solo per poter fare una nuova avventura che il Signore mi ha riservato. Quindi vado avanti con più forza di prima».
Hai ammazzato tu nel Ravennate il vigilante Salvatore Chianese?
«Assolutamente no».
Si è detto che potresti aver ucciso anche i fidanzati Paula Mas e Marc Hernandez, due giovani massacrati nella palude spagnola di Susqueda il 24 agosto 2017…
«Nemmeno. Mi hanno indagato per questi delitti e solo dalla prova del Dna è emerso che non ero stato io. Le impronte non sono le mie».
In Spagna sei a processo anche per due tentati omicidi ed hai commesso diverse rapine anche in Italia…
«Mi stanno attribuendo morti e rapine che io non ho assolutamente commesso. Se c’è un caso irrisolto lo assegnano a me. Ma sinceramente a me cambia poco avere 30 anni di condanna o l’ergastolo. Avrò duecento anni in tutto da scontare. Dovrei essere Highlander per farmeli tutti. Ora andremo in appello».
Ci sono complici che hanno fatto il tuo nome…
«Lo so, questo per avere sconti di pena. Ma io non parlerò mai, non farò mai i nomi di chi mi ha aiutato nella fuga. Tipo chi mi ha dato armi, macchine, etc. Esiste un codice di onore. Punto. Questo non si può sorvolare, nemmeno se ci metto la mia testa. Mi porto il segreto in cielo, quando sarà il mio momento».
Le guardie penitenziarie si avvicinano, il nostro colloquio è terminato. “Igor il russo” si alza obbediente e si consegna con la stessa tranquillità con la quale mi è apparso un’ora prima. Mi saluta, mi ringrazia «per essere venuta fin qui», mi sorride e mi gira le spalle diretto al suo destino. Poi si ferma, ci ripensa. «Mi farebbe molto piacere se tu tornassi».