Corriere della Sera, 20 maggio 2019
Intervista a Marco Balich
Marco Balich, veneziano, classe 1962, quattro figli (tra cui due gemelli), separato, è sempre in giro nel mondo. Il suo lavoro non ha una definizione univoca, si va dal poetico «manager di emozioni» al più prosaico «organizzatore di eventi olimpici»: ma è lui che mette a punto i megashow visti in diretta in gran parte del Pianeta. La sua società nel 2018 ha fatturato 100 milioni di euro, il 2019 sarà l’anno dei Giochi Panamericani di Lima. In passato, oltre l’Expo Milano 2015, e solo per citare gli impegni olimpici più noti, Torino 2016, Sochi 2014, Rio de Janeiro 2016 oltre al Bicentenario dell’Indipendenza Messicana 2010 o i giochi Paralimpici Asiatici 2018 in Indonesia. Veste di blu, capelli corti, parla a voce bassa, la negazione del genio e sregolatezza.
Come procede la candidatura della Balich Worldwide show per la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Tokyo 2020? Quanto ci conta, Marco Balich?
«Ci conto e ci tengo tantissimo. Diciamo che siamo in una buonissima posizione e che manca l’atto formale. Significherebbe molto, dopo gli altri impegni olimpici che abbiamo affrontato ma anche per poter sostenere, aiutare la candidatura di Milano-Cortina per l’Olimpiade invernale 2026».
Magari avrebbe già in mente qualcosa per l’apertura 2026 al Meazza?
«Una narrazione su Milano legata all’intera Italia e ai valori europei. Dopo l’Expo, che ha portato una ventata di energia alla città e al Nord, sarebbe il miglior tema per ricucire il divario Nord-Sud e per ritrovare l’ideale dell’Europa. Sarei felice di dare una mano ai nuovi talenti, aiutandoli a farli emergere. Bisogna saper lasciare spazio alle nuove generazioni, non stare lì a occupare sempre tutti gli spazi».
Nel Balich ragazzo veneziano, non c’era tutto questo: 19 esami sostenuti a Giurisprudenza.
«C’era forse una tranquilla carriera da avvocato. Ma un giorno, mentre ero nello studio legale in cui cominciavo a muovermi, sentii una madre e una figlia urlare, scannarsi per un negozio a Iesolo. Capii che non poteva essere la mia vita. Che c’era dell’altro».
C’è stata la casuale partenza come assistente dei Simple Minds nei loro tour. Poi la tv, i videoclip.
«L’inizio fu fantastico, con quei tour... Poi cominciai a progettare per la tv, a organizzare partecipazioni musicali e non. Andavo a Roma e collaboravo con bravi e giovani professionisti come Giuseppe Capotondi, Luca Lucini, Vanessa Incontrada, Alessandro Cattelan».
Nemmeno quella era la sua vita...
«Per fare veramente tv devi essere cinico, saper puntare anche sul lato bieco delle persone e della vita. A me piace invece celebrare l’aspetto bello dell’umanità. E poi devi inghiottire molti bocconi amari».
Per esempio?
«Ricordo vent’anni fa un’anticamera davanti alla porta dell’allora direttore di Rai2, Carlo Freccero, durata sette ore. Dico: sette ore. Forse per sottolineare il suo potere. Freccero è tornato lì, a Rai2. Ha settant’anni e non lo capisco. Lo ripeto: bisogna a un certo punto saper lasciare spazio alle nuove generazioni, aiutarle».
Lei era assistente di Fran Tomasi nel megashow dei Pink Floyd a Venezia nel 1989. I titoli dei giornali del tempo sono implacabili: «Disastro», «Venezia ferita», «L’invasione dei rifiuti»: 200.000 persone da tutto il mondo proprio nella Festa del Redentore. Oggi che ne pensa?
«Arrivarono tutti veramente, inclusa la Mondovisione con Nbc e Bbc. Che colpo d’occhio! Il palco illuminato sulla Laguna, circondato da gondole e barchini. Ma Venezia è troppo fragile per un impatto del genere. Le istituzioni mancarono, non erano state coinvolte. Infatti, la giunta cadde. Però imparai molto da Fran Tomasi».
Rifarebbe un megaconcerto a Venezia?
«No! Venezia è un gioiello che va protetto. Sono favorevolissimo al ticket di ingresso: 10 euro è una cifra accessibile a tutti ma può scoraggiare quel mordi e fuggi che occupa la città senza lasciarle niente».
Milano e l’Expo 2015. La accusarono di aver copiato l’Albero della Vita dai lavori di Chris Wilkinson a Singapore. Lei rispose di aver copiato, sì, ma dal disegno michelangiolesco per la pavimentazione del Campidoglio. Cosa pensa di quella storia?
«Ero profondamente dispiaciuto per la superficialità con cui molti cercarono il sensazionalismo invece di approfondire la sostanza. Ci furono mani italiane, nella polemica: forse un po’ di invidia endemica nel nostro mestiere. Nello stesso momento ero glorificato in Brasile e attaccato nella città in cui lavoro. In altri Paesi, i connazionali di successo sono celebratissimi, gli inglesi quasi li mitizzano. In Italia c’è sempre... come dire?... un clima di sospetto verso chi si afferma».
Dopo Milano, Roma con lo show stabile dal 15 marzo 2018 sul Giudizio Universale e la Cappella Sistina in via della Conciliazione: più di 300.000 spettatori fino a oggi. Anche qui, gli attacchi. Il critico Francesco Bonami ha scritto: «È come se Jean-Luc Godard si fosse messo in testa di fare la regia dell’inaugurazione di un’Olimpiade, Riccardo Muti di fare il direttore non di un’orchestra ma di un gruppo rock».
«Direi che Bonami non sa di cosa parla. Io non avrei alcun titolo per bocciare una sua mostra di arte contemporanea organizzata, che so, negli Stati Uniti. Ma io sarei orgoglioso, da italiano, se lui avesse successo. Penso che i tuttologi lascino il tempo che trovano. Resta il fatto che oggi siamo una delle maggiori attrazioni turistiche».
Lo show è costato nove milioni di investimento.
«Altri avrebbero comprato una gran barca. Ville esclusive. Io ho finanziato uno show su Michelangelo. Sono scelte».
Lei ha lanciato una proposta: Roma capitale mondiale dell’arte. Ma di che si tratta?
«Dopo gli anni di piombo, Renato Nicolini fece girare pagina a Roma con l’Estate Romana. Ora bisogna chiudere con gli anni dell’immondizia. Roma è l’unica città al mondo con testimonianze culturali continue dal VII secolo avanti Cristo a oggi. Le nuove tecnologie offrono strumenti straordinari per raccontarla: l’esperienza di Piero Angela ai Fori è esemplificativa. Il nostro impegno come gruppo nei prossimi anni, accanto ai massimi eventi mondiali, sarà applicare ciò che sappiamo fare alla celebrazione di Roma, alla sua valorizzazione: c’è l’immensa luce dell’arte e una gran voglia di ritrovare l’orgoglio. Non si può inerzialmente continuare solo sulla protezione, occorre anche una promozione attenta. Coinvolgendo le istituzioni locali e nazionali. E le grandi famiglie...».
L’imprenditoria locale?
«Chi a Roma compra squadre o giornali può compiere la stessa scelta che molta imprenditoria ha fatto a Milano con l’Expo rispondendo all’appello del sindaco Sala. Poi mi piacerebbe coinvolgere gli artisti romani. Per esempio, Claudio Baglioni».
Ai tempi dei videoclip litigò proprio con Baglioni...
«Roba vecchissima. Claudio è un vero professionista, si è dimostrato, nel difficile circo di Sanremo, un uomo con la schiena dritta. Ha detto cose giustissime sull’immigrazione. Mi piacerebbe che un grande artista come lui raccogliesse la sfida su Roma».
C’è il «sogno nel cassetto» che si chiede in questi casi?
«Un grande show a Pompei. Magari distribuito nei diversi impluvium delle case. Mezz’ora di racconto sulla vita quotidiana: cibo, lavoro, le famiglie, le abitudini. Le nuove tecnologie non sono invasive, nessun pericolo per la tutela».
Quattro figli: come si concilia la paternità con impegni in tutto il mondo?
«Certo, ho una moglie separata assai poco contenta... Con i figli bisogna puntare sulla qualità del tempo, sull’attenzione e sull’affetto quando si sta con loro. Ma non dimenticherò mai che, ai tempi di Torino, quando cercavo di convincere Pavarotti a cantare Vinceròdopo l’accensione del calderone, e gli raccontavo i miei problemi familiari, mi disse: “Tutti noi che facciamo questo lavoro viviamo seduti su una giostra, quando ci guardiamo intorno perdiamo magari i dettagli. Ma quando scendiamo c’è solo la fine... mai lamentarsi”. Infatti, non mi lamento e non penso che la mia vita sia un sacrificio perché abbiamo aperto la strada a idee e a giovani talenti in tutto il mondo».
Ma lei, alla fine, che lavoro fa?
«Passo dall’essere un coreografo superconcettuale al mediatore con i servizi segreti quando bisogna organizzare l’arrivo dei Capi di Stato alle cerimonie di apertura. Una summa quotidiana di tante discipline. No, non sono un luminare. Anzi. Sono un veicolo per esaltare l’arte altrui».