la Repubblica, 20 maggio 2019
L’amico che tradì Baudelaire
Charles Baudelaire è stato il più grande saggista e critico del Diciannovesimo secolo: forse di tutti i tempi, quando escludiamo l’autore del Sublime e Montaigne. Se rileggiamo i suoi Saloni, Il pittore della vita moderna, i testi su Poe, Victor Hugo, Balzac, Théophile Gautier, Delacroix, De Quincey, Wagner e L’essenza del riso (a cura di Evaldo Violo, Unicopli), rimaniamo sconvolti, travolti; e persuasi. Baudelaire aveva il dono supremo del critico: il senso della totalità delle cose – l’amore per i palazzi e le capanne, la tenerezza e la crudeltà, il vicino e il lontano, il vegetale e l’architettura, il dolce e l’orribile, il visibile e l’invisibile. Possedeva un fortissimo senso analogico, che scopriva i rapporti tra i colori, i suoni e i profumi, e l’immensa tastiera delle corrispondenze: era convinto che Dio avesse proferito il mondo come una complessa ed indivisibile totalità. Sentiva i colori, specialmente il rosso e il verde, che si attraevano a vicenda: le vibrazioni e le palpitazioni della natura; immaginava un essere vasto, immenso, complicato ed euritmico, che soffriva tutti i sospiri e le ambizioni umane.
Aveva il senso della costruzione e della concentrazione, ma anche quello della vaporizzazione delle cose: il dono di comprendere l’abisso ma anche la realtà quotidiana, la società e la politica; il dono teologico, che trionfa nel saggio sul riso; un’immensa immaginazione creatrice, la «regina di tutte le facoltà», la quale prova che l’uomo è fatto a somiglianza di Dio. Parlava sempre e soltanto di se stesso, ma ogni sua osservazione personale era, insieme, una precisissima annotazione sugli altri: sapeva che tutti i grandi poeti diventano naturalmente, e fatalmente, critici. Nelle Fusées, scrisse: «Ho trovato la definizione del Bello – del mio bello. È qualcosa di ardente e di triste, qualcosa di un po’ vago, che lascia spazio alla congettura… Una testa seducente e bella, una testa di donna, fa sognare insieme di voluttà e di tristezza: comporta un’idea di malinconia, di stanchezza, persino di sazietà, — ma anche un’idea contraria, cioè un ardore, un desiderio di vivere, associata con un’amarezza che rifluisce, come se venisse dalla privazione e dalla disperazione». Nella sua poesia e nella sua critica, c’era dovunque il mistero: il mistero rivelato; o incapace di rivelarsi. Il segno supremo erano, forse, le nuvole: le nuvole, queste forme fantastiche e luminose, queste tenebre caotiche, queste immensità verdi e rosa, sospese le une alle altre, queste fornaci aperte, questi firmamenti di raso nero o viola, questi orizzonti dolorosi o ruscellanti di metallo fuso, queste profondità, questi splendori, che salivano al cervello come bevande inebrianti, o come l’eloquenza dell’oppio. Baudelaire amava la molle atmosfera della donna: l’odore delle sue mani, del suo seno, dei suoi ginocchi, della sua capigliatura, dei suoi vestiti flessuosi e ondeggianti, Dulce balneum suavibus Unguentatum odoribus; atmosfera che dona una delicatezza di epidermide e una distinzione di accenti, una specie di androginia, senza le quali il genio più virile resta incompleto. Quali fossero le sue ispirazioni, Baudelaire aspirava a «quelle ammirevoli ore,, dove il cielo di un azzurro più trasparente sprofonda come in un abisso più infinito, dove i suoni rintoccano musicalmente, dove i colori parlano, dove i profumi raccontano mondi di idee».
La bellezza riempiva la vita parigina di ogni giorno, sebbene le altre persone non la scorgessero. Solo Balzac – l’uomo dalle imprese iperboliche e fantasmagoriche, il grande cacciatore di sogni, il personaggio più comico, interessante e vanitoso della Comédie humaine, questo grosso bambino gonfio di genio e di vanità – l’aveva compreso. Baudelaire lo adorava. Nel saggio su Théophile Gautier, gli dedicò una pagina meravigliosa – Balzac che «rivestiva di luce e di porpora la pura trivialità»: una pagina bella come i grandi scorci critici di Marcel Proust nel Contre Sainte-Beuve.
Di recente l’editore Aragno ha pubblicato le lettere tra Baudelaire e Sainte-Beuve: Voi avete preso l’inferno (a cura di Massimo Carloni). Con le Poesie e pensieri di Joseph Delorme Sainte-Beuve aveva esercitato una certa influenza su Baudelaire: entrambi lo sapevano. Baudelaire scrisse che «l’intelligenza di Sainte- Beuve era piena di salute, una salute erculea, e al tempo stesso così fine e femminea». Quando vide una fotografia di Sainte-Beuve, Baudelaire gli scrisse: «Siete proprio voi, tale e quale, con quell’aria affabile, ironica, e un po’ assorta. Avete, più che mai, l’aria di un confessore e di un ostetrico di anime»: come Socrate.
Baudelaire chiese aiuto a Sainte- Beuve. Sperava che scrivesse un articolo sulle sue traduzioni da Poe e sulle Fleurs du mal, i Paradisi artificiali e i Piccoli poemi in prosa. Sperava che lo aiutasse ad entrare all’Académie française. Quando fu a Parigi andò a rue Montparnasse, dove Sainte-Beuve abitava, portandogli del panpepato: «Non c’era niente di meglio che bagnarlo nel vino alla fine di pranzo». Il panpepato inglese, molto denso e nero, fitto e senza pori; come se il panpepato fosse la chiave dell’universo. «Scrivete su di me se ne avete il tempo», disse a Sainte- Beuve, dipendeva dal suo articolo: «Ho bisogno di voi come di una doccia». Sainte-Beuve sapeva che Baudelaire aveva molto talento, sebbene non comprendesse che era il più grande poeta moderno di ogni lingua. «Il poeta Baudelaire aveva impiegato anni ad estrarre dalla materia di ogni fiore un succo velenoso, e persino, bisogna dirlo, assai gradevolmente velenoso». E poi: «Avete voluto strappare ai demoni notturni i loro segreti. Facendolo con sottigliezza, con un talento curioso e un abbandono quasi prezioso nell’espressione, imperlando il dettaglio, petrarcheggiando sull’orribile: date l’impressione di esservi divertito; eppure avete sofferto, vi siete logorato a portare in giro i vostri incubi, i vostri tormenti morali; avete dovuto soffrire molto, caro figliolo!» (Sainte-Beuve era sempre paterno con quello strano poeta).
Il 20 gennaio 1862, aggiunse una pagina famosa: «Baudelaire ha trovato il modo di costruire, all’estremità di una lingua di terra ritenuta inabitabile e oltre i confini del romanticismo conosciuto, un chiosco bizzarro, molto ornato e ricercato, ma civettuolo e misterioso, dove si legge Edgar Poe, ci si inebria con l’hascisc per poi discuterne, si assume l’oppio e mille altre droghe abominevoli in tazze di porcellana rifinita. Questo chiosco singolare, fatto di intarsi, di un’originalità concertata e composita, che da qualche tempo attira gli sguardi alla punta estrema del Kamchatka romantico, io lo chiamo la folieBaudelaire».
Come al solito, Sainte-Beuve era felice e vanitoso dei propri bon mots. Baudelaire fu felice di quelle parole, come se vivesse davvero in un Kamchatka, e un libro immenso come Le fleurs du mal fosse soltanto una strana e divertente folie. Confessava che «questo Sainte-Beuve è il mio vizio». Ma Sainte-Beuve non fece nulla: non aiutò Baudelaire ad entrare all’Académie (anzi, lo sconsigliò di presentarsi), e non scrisse nessun articolo su nessuno dei libri di Baudelaire. Aveva paura di esprimersi parlando di un poeta così originale. Temeva di compromettersi.
Ne Il mio cuore messo a nudo, Baudelaire scrisse queste righe commoventissime: «Fare tutte le mattine la mia preghiera a Dio, serbatoio di forza e di ogni giustizia, a mio padre, a Mariette e a Poe, come intercessori; pregarli di comunicarmi la forza necessaria per compiere tutti i miei doveri... Lavorare tutta la giornata, o almeno quanto le mie forze mi permettono; dire tutte le sere una nuova preghiera per domandare a Dio la vita e la forza per mia madre e per me; obbedire ai principi della più stretta sobrietà, il primo dei quali è la soppressione di tutti gli eccitanti». Dubito davvero che abbia abolito “tutti gli eccitanti”.
Si avviò a morire. Aveva i capelli bianchi, era invecchiato precocemente, sentiva passare sul capo «il vento dell’ala dell’imbecillità», soffriva di vertigini, era consumato dalle nevralgie. A Bruxelles, dove giunse nell’aprile 1864, rimase a letto, sommerso dai farmaci. Il lato destro del corpo, le braccia e le gambe erano insensibili, non riusciva a parlare, o confondeva le parole, ne pronunciava soltanto pochissime, ah non – non cré nom, cré nom (cioè «sacro nome di dio»). Un giorno si guardò allo specchio che un’amica gli porgeva: non si riconobbe, e si salutò con deferenza. Quando non riusciva a farsi capire diventava violento, oppure dal letto ascoltava con attenzione gli amici che non comprendevano fino a che punto la sua intelligenza fosse intaccata: pensavano che, anche se fosse guarito, sarebbe stato ridotto a una pura esistenza animale.
Dopo una lunga agonia, Baudelaire domandò i sacramenti, e il 31 agosto 1867 morì tra le braccia della madre. Lo stesso giorno la Revue nationalecominciò a pubblicare l’ultima serie dei Piccoli poemi in prosa. Venne sepolto al cimitero Montparnasse, accanto a un uomo che odiava, il generale Aupick, secondo marito della madre. Negli ultimi due anni di vita Sainte-Beuve non scrisse nulla su Baudelaire: raccolse soltanto, sotto il titolo Dossier Baudelaire, gli articoli e i necrologi usciti sulla stampa. Sebbene si gloriasse di scoprire le “terre nuove”, non comprese, e cercò di nascondere, «quell’immensa Siberia, calda e popolosa» che Baudelaire aveva creato.