La Stampa, 20 maggio 2019
Il dilemma di Malick (a Cannes)
Si può, o magari si deve, disobbedire alla legge che non si condivide? È giusto ribellarsi a un’autorità che si considera illegittima, o addirittura criminale? Valgono di più le regole della comunità o la coscienza individuale?
Sono questioni vecchie come l’uomo, attuali almeno dai tempi della tragedia greca. Figuriamoci durante il nazismo. Terrence Malick ci costruisce sopra il dilemma di The Hidden Life, «La vita nascosta» come da citazione di Eliot, il suo ultimo attesissimo film presentato ieri a Cannes, ovviamente in assenza dell’autore che è la primula rossa del cinema internazionale e, Festival o non Festival, non ha certo fatto il viaggio.
Il cameo postumo di Ganz
Siamo nel post-Anschluss sulle montagne dell’Austria (ma in realtà, ammesso che ci sia differenza, il film è stato girato in Alto Adige, e in effetti lo spot per le Dolomiti è sensazionale). Qui il cattolicissimo contadino Franz (August Diehl, bravissimo) vive felice nella sua fattoria con la moglie Fani (Valerie Pachner, idem), le tre figlie, la cognata, l’asino, le mucche, le galline e così via. Siamo in piena Heidi, un’Arcadia alpina che, paradossalmente, ricorda proprio certa propaganda del Terzo Reich, tipo i tremendi quadri esposti anni fa a una mostra berlinese sull’arte totalitaria dove i contadini biondi di pura razza ariana, sani principi e numerosa prole si riuniscono nella stube dopo il lavoro nei campi ad ascoltare i discorsi di Hitler.
E invece Franz non ci sta. Fa il servizio militare, lo rimandano a casa perché si pensa che la guerra sia vinta, poi i nazi ci ripensano e lo ri-richiamano. E lui, questa volta, dice di no. Si rifiuta di giurare fedeltà al Führer. Basterebbe una firma su una dichiarazione perché fosse assegnato alla sanità e salvasse la pelle, e magari pure quella di qualcun altro. Tutti provano a convincerlo: la mamma, il parroco, il vescovo, il sindaco, il suo avvocato quando è già in prigione e perfino Bruno Ganz nel cameo postumo del generale che presiede il Tribunale militare (pieno di busti di Hitler esattamente come il famigerato Tribunale del Popolo, ed è forse l’unica licenza di un film altrimenti accuratissimo fino alla minuzia).
L’unica che gli dice sempre e soltanto di fare quello che ritiene giusto è la moglie, anche nell’ultimo colloquio a condanna a morte già pronunciata. Lui è incrollabile e, dopo i pestaggi in carcere e il processo-farsa, va alla ghigliottina confidando nel suo Dio e nella sua causa: del resto, è una storia vera.
Il tutto dura moltissimo, due ore e 53 minuti a maggior gloria del pantesimo di Malick, con infiniti dettagli sul fieno falciato, la mucca da mungere, i monti in tutte e quattro le stagioni, le chiesine di campagna barocche, i maglioni di lana cotta, il temporale, il bel tempo, le caprette che ti fanno ciao e i contadini con facce da quadro di Bosch che invece isolano la famiglia del traditore della Patria, e Bach in sottofondo. I ritmi sono lentissimi come la natura.
Il film al momento giusto
A uno spettatore «normale», non da festival o malickiano di stretta osservanza, la tentazione di abbandonare la partita all’ennesimo raccolto in effetti viene. Ma avrebbe torto: l’ultima mezzora è impressionante, un’altalena di emozioni fra la moglie che si dispera nella fattoria e lui che parla con Dio nella cella (anche questo è interessante: il film è girato in inglese ma, nei momenti più brutali, poliziotti e pubblici ministeri sbraitano in tedesco).
Per finire: è senz’altro un caso, ma l’impressione è che questo sia il film giusto al momento giusto. E allora: la nave dei migranti deve attraccare sì o no? È legittimo riattaccare l’elettricità al palazzo occupato abusivamente? Malick non ha dubbi e sta con Franz, ma dall’altra parte c’è il nazismo. Oggi, in democrazia, paradossalmente decidere ciò che è giusto è più difficile. Ma che, metabolizzata l’emozione, un film ti obblighi a pensarci, significa che non hai sprecato tre ore della tua vita.