La Stampa, 20 maggio 2019
La trasformazione sessuale e l’arte
L’identità è mobile. Più leggera di una piuma, nel vento artistico e mediatico. L’identità in questione è quella sessuale, mai stata tanto trasformista, illusionistica, in ultima analisi rivelatrice nel caleidoscopio dell’immaginario contemporaneo. Prendiamo gli autoritratti patinati fino alla parodia nella serie Indigenous woman dell’artista americana transgender Martine Gutierrez in mostra alla 58sima Biennale di Venezia, nella selezione del curatore Ralph Rugoff. L’artista - performer – di origine guatemalteca, vive e lavora a Brooklyn - compare in una foto nelle sembianze etno-pop di una divinità mesoamericana, passata al trucco e nel camerino di uno stylist di Vogue. In un’altra, coccola una barbie e una bambolina di pezza di probabile ascendenza maya. Oppure, in uno slancio di gelido erotismo, in posa alla Kim Kardashian, abbraccia un manichino. L’unica apparenza maschile è un paio di pantaloni e scarpe di vernice a bordo piscina. Apparenza, appunto. Chissà chi li indossa.
L’autrice, che è anche cantante, ha raccontato di utilizzare il linguaggio della moda e i tessuti indigeni per rivendicare il proprio corpo e la propria storia. E lanciare allo stesso tempo una critica al colonialismo, come ha sottolineato la rivista New Yorker, in un profilo che le ha dedicato. In altre parole, la trasformazione sessuale come strumento artistico, l’ambiguità come passepartout creativo (in una foto ha incollati sul corpo nudo insieme i simboli femminili e maschili). Non è sola, Martine. Sempre alla Biennale, la fotografa sudafricana Zanele Muholi occulta a volte la sua sessualità, per poi farla esplodere in atti d’accusa. Il transgender è la nuova avanguardia? Dal punto di vista curatoriale tiene la scena Milovan Farronato, con il suo labirintico Padiglione Italia, a Venezia. Gli esiti sono felici e paradossali, allo stesso tempo. Se l’appropriazione culturale è uno dei tabù più discussi della nostra epoca (ci sono incappati artisti e studenti universitari, scrittori e politici), l’appropriazione sessuale fa scintille. Non sempre nasce da un reale cambio di sesso. Milica Cirovic, artista serba di base a Roma, muta solo nelle sue opere. Nella serie più recente di autoritratti fotografici, ha indossato i panni maschili di gangster cetnici nella Belgrado degli anni ’90. Con risultati realistici e disturbanti. Ora progetta di mettere la tiara papale. È vero che la nuova trans vague sembra essere arrivata ultima nel mettere a fuoco la porosità sessuale.
Dopo il cinema, la moda, la musica, la pubblicità. Basta pensare al successo di mannequin double-face quali Andrej Pejic, o più apertamente trans come l’esplosiva Ines Rau, che lo scorso anno ha pubblicato un libro testimonianza, Femme. Alle pubblicità in cui alcuni kathoey, i trans tailandesi, hanno raccontato emozionanti frammenti di vita intima per una marca di cosmetici. Agli show queer del cantante Bilal Hassani. Eppure l’arte transgender ha un’abilità particolare nell’usare il grimaldello del genere sessuale. Non è importante la sessualità dell’autore, ma quella dell’opera piuttosto. Sembra proprio che in una cultura sempre più suscettibile, sbarrata da sensi vietati, l’avanguardia per saltare gli ostacoli abbia bisogno di mutare, di essere trans.