il Giornale, 20 maggio 2019
Storia di Pompeo, che perse tutto in un giorno
«Di tutte le morti degli uomini antichi la morte di Pompeo è fra quelle che più si prestano alla meditazione e alla fantasticheria» scriverà Montherlant in nota a La guerra civile, la tragedia che mettendone in scena le gesta si fermava a Farsalo, dove più che essere sconfitto da Cesare, Pompeo (106-48 a.C.) è vinto da se stesso. Da allora, e per i successivi cinquanta giorni, vagherà per mare come un cadavere ambulante: sceglierà poi l’approdo sbagliato, sarà assassinato a tradimento.
Luca Fezzi ci dà nel suo Pompeo (Salerno, pagg. 382, euro 25) la biografia accurata di chi fu «conquistatore del mondo, difensore della res publica, eroe tragico», perché Pompeo fu nel corso di meno di sessant’anni tutto questo e altro ancora: un carnefice adolescente e il «re del mare» che liberò il Mediterraneo dalla pirateria, il nuovo Alessandro che trionfava sui tre continenti e quindi sul mondo conosciuto, il console unico e l’inefficace difensore della legalità repubblicana contro l’ex alleato Gaio Giulio Cesare. L’uomo che aveva guidato Roma per un ventennio, scrive Fezzi, «in un solo giorno, il 9 agosto 48 a. C. riuscì a perdere tutto, una parabola politica che ha nella rapidità e nell’improbabilità le cause del suo fascino».
Da antichista, Fezzi costruisce una biografia fittissima di riferimenti e di note, esaustiva, ma a tratti sfiancante per il lettore comune, che rischia di perdersi nei meandri della politica romana che a quella vita fanno corona e che nella loro, come dire, prosaicità, soldi, corruzione, bramosia di posti, ricordano come il mondo classico non fosse quella caricatura idealizzata e ascetica che l’illuminismo prima, il romanticismo poi finiranno con il creare, ma qualcosa di umanamente terreno e, a distanza di secoli, perfettamente riconoscibile nella sua attualità. Come osserva ancora Montherlant, «i Romani hanno dispiegato con la loro vita un largo ventaglio, che va dall’arte di godere all’arte di morire: al centro, fra le due, il coraggio, la gravità, l’infamia e la tristezza. Per questo, la loro storia è un microcosmo di tutta la Storia. Chi conosce bene la storia romana, non ha bisogno di conoscere la storia del mondo, tutto quello che è opus romanum è opus humanum; tutta l’opera romana è opera umana».
Ha raccontato Plutarco che a Farsalo «di colpo assomigliò a un uomo sorpreso che ha perduto il senno: senza ricordarsi che era il grande Pompeo, abbandonò la partita, si ritirò a piccoli passi nel suo accampamento, entrò nella su tenda e si sedette senza dire una sola parola». È un avvilimento improvviso su cui contemporanei e posteri si sono interrogati e per un Plutarco, appunto, o un Dione Cassio che si rifanno a un rendersi conto troppo tardi di aver sbagliato la tattica di combattimento e aver comunque perduto il favore degli dei, ci sarà un moderno Mommsen, a cui Pompeo non era mia piaciuto, «un sergente maggiore» lo definirà con stupido sprezzo, che preferirà puntare il dito sul fattore psicologico: per la prima volta Pompeo conosce l’avversità e per debolezza d’animo congenita soccombe al primo colpo.
Ci sono tuttavia altri fattori da considerare, la malaria, per esempio, che da due anni lo perseguita e ne mina fisico e mente, indebolendo in lui il potere della sua volontà contro i cattivi consigli, il potere di coordinazione e di invenzione quando si tratta di reagire. E c’è poi l’aver a che fare con una guerra civile che è altra cosa dalla guerra nazionale. Ancora Montherlant nota che «c’è nella guerra civile una complicazione, un sospetto, un’angoscia, un’usura nervosa, una specie di dolore che non esistono, se non in misura assai minore, nella guerra nazionale. Esse agiscono qui, su un uomo giunto alle soglie della sessantina, diminuito dalla malattia».
La debolezza fisica la raccontano particolari apparentemente insignificanti. Il sedersi nella tenda aspettando la disfatta, l’affidarsi alla mano del suo liberto per alzarsi dalla barca che lo sta conducendo alla morte... Ma anche il venir meno degli dèi trova modo di manifestarsi tra sogni, apparizioni, fenomeni naturali, fino all’ultimo presagio raccontato dallo storico suo contemporaneo Valerio Massimo: «Approdando a Cipro, vede sulla riva un magnifico edificio e ne domanda il nome al pilota della nave. Costui risponde: si chiama Batobasileia, il reame dei morti. Questa parola distrusse quel po’ di speranza che restava a Pompeo, che non poté nasconderlo».
Al fondo di questo incrociarsi di errori, presagi, debolezze c’è tuttavia qualcosa di più, il confronto di caratteri, l’abisso fra il talento e il genio, la differenza inafferrabile che ha fatto di Pompeo e di Cesare una coppia destinata a scindersi per impossibilità a fondersi. Ed è possibile che dopo Farsalo, avendo preso contezza della sua «incapacità», Pompeo accetti di soffrire per ciò che egli è e in un certo senso preferisca a la morte al timore di venire ucciso, in questo fedele al pensiero di Cesare, suo doppio e però suo vincitore: «Meglio perire una volta che tremare sempre».
Pompeo è però e soprattutto fedele a sé stesso. Imbarcandosi una decina d’anni prima per la Sardegna, malgrado il mare in tempesta, ha detto all’equipaggio: «Navigare necesse est; vivere non necesse», a testimonianza che ciò che conta è prendere nelle mani il proprio fato senza preoccuparsi di ciò che potrà accadere.
Anche la morte di Pompeo è esemplare ed esemplarmente romana. Innanzitutto perché dei tre sicari che lo uccideranno, due sono romani ed è come se la guerra civile che egli non aveva voluto si combattesse in patria gli presenti ora il conto davanti al mare d’Egitto. Poi perché si tratta di due subalterni che lo uccidono colpendolo alle spalle. Infine perché al momento dei primi colpi si copre il volto con la toga, gesto classico della romanità, gesto che a propria volta Cesare ripeterà nelle Idi di marzo del 44 a.C. quando, trafitto dai pugnali, si trascinerà fino a cadere ai piedi della statua di Pompeo come, scrive Montherlant, a chiedergli perdono: «Eccoli l’uno e l’altro riconciliati nel nulla». È insomma la loro storia di «fratelli nemici» che nell’arco di nemmeno un lustro si conclude allo stesso modo: due soli invitti prima, due stelle filanti d’improvviso.