il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2019
Giulia Bongiorno, l’avvocato che si fece ministro (e ancora avvocato)
Giulia Bongiorno, Ministro per la pubblica amministrazione, è nata a Palermo.
Non lo sa quasi nessuno, ma l’avvocato Giulia Bongiorno fa anche il ministro, sebbene nel Consiglio dei ministri, spesso faccia anche l’avvocato. Precisamente l’avvocato difensore della Lega, cioè di Matteo Salvini.
Il suo dicastero è quello per la Pubblica Amministrazione, con più o meno gli stessi titoli del suo autorevole predecessore, Marianna Madia, che un giorno sorrise ai microfoni, dicendo: “Porto in politica la mia straordinaria inesperienza”. Ma Giulia è molto più sveglia, non ha usato le morbidezze preraffaellite per scalare il potere, semmai i nervi, la velocità, il tempismo. È stata pupilla di Gianfranco Fini quando era Fini. Poi pupilla di Mario Monti, ai tempi d’oro del loden. E ha infine folgorato Salvini con un solo slogan: “La difesa è sempre legittima!” al punto da farlo rotolare da cavallo e convincerlo, alle ultime elezioni, a donarle il cuoio rosso dei senatori, e lo scettro ministeriale.
Tutti si aspettavano quello della Giustizia. Ma siccome la politica funziona come nei sequestri di persona, attraverso lunghe trattative con le armi e il telefono sul tavolo, il riscatto alla fine toccherà pagarlo ai travet del pubblico impiego che lei vuole sottoporre a controlli biometrici – iride o impronte digitali per entrare e uscire dall’ufficio – cinque giorni alla settimana, dall’assunzione alla pensione, senza condizionale.
Per farsi concava con ogni leader temporaneamente prescelto, ha semplificato il suo codice di procedura politica a un paio di articoli convessi: guai a voi colpevoli è il primo. E: guai a voi colpevoli è il secondo.
Il resto lo ha affidato alla più encomiabile delle battaglie, quella contro la violenza alle donne, alla quale ha dedicato tutte le sue energie politiche oltre che novantanove delle sue cento interviste. Dal 2007, in compagnia di Michelle Hunziker, ha fondato l’associazione Doppia difesa, per tutelare le donne maltrattate, elaborando un pacchetto di provvedimenti legislativi appena approvato alla Camera, intitolato Codice rosso, a dire l’urgenza con cui polizia e magistrati dovranno sempre reagire alle denunce di maltrattamenti, “non oltre le 72 ore”. È un “tempo perentorio”, visto che è proprio il tempo il complice più crudele dell’uomo che picchia, minaccia, assale e tante volte uccide.
Come talvolta fa il destino, fu proprio una donna minacciata la sua prima cliente di giovane avvocatessa, anno 1990. E quella donna venne uccisa prima di essere ascoltata dai giudici, prima di essere protetta da chi doveva. Un crimine mai dimenticato, con l’aggravante del “tradimento dello Stato”, come ancora oggi Giulia Bongiorno ricorda, con lacrime e furore in tv, per una ferita che non passa.
Quella violenza è il punto di raccordo delle sue due vite, con una curiosa intersezione che transita nel nero della Repubblica, dentro la clamorosa leggenda – anche giudiziaria – dell’uomo che più a lungo incarnò lo Stato e la sua ombra, Giulio Andreotti. Ma andiamo con ordine.
Giulia Bongiorno nasce alto borghese a Palermo tra i libri di Giurisprudenza, anno 1966. Il padre, Girolamo, è professore emerito di Diritto processuale alla Sapienza. Lei studia da prima della classe e non scende mai dal podio. Non è alta, ma gioca a basket e punta dritto a canestro. D’estate nuota nel mare di Mondello che con una granita al gelso resterà per sempre la sua vacanza ideale. A 23 anni si laurea con lode e toga d’oro. La indossa nel più prestigioso degli studi, quello di Gioacchino Sbacchi, palermitano anche lui, re dei penalisti e poi con Franco Coppi, l’inarrivabile decano.
Dopo un po’ di riscaldamento a bordo ring, entra nel quadrato della Storia, sedendosi accanto a Giulio Andreotti inquisito a Palermo e a Perugia per mafia e per l’omicidio di Mino Pecorelli, due accuse da ergastolo, una dozzina di magistrati schierati contro, cento pentiti, tutti i riflettori puntati, compresi quelli della tv giapponese. Lei ha 27 anni. E invece di fare un passo indietro e darsela a gambe, ne fa due in avanti: non è un retore, ma una spugna, anche se fatta con la limatura di ferro. Per cinque volte legge l’intero malloppo del processo, 1,2 milioni di pagine, stesa sul pavimento, usando ogni volta un evidenziatore di colore diverso. Quando ha imparato, punta il dito sinistro, carica il destro e attacca. Va al tappeto due volte, vince alla terza. E siccome le piace stravincere, grida tre volte in aula la mezza bugia del verdetto (“Assolto! Assolto! Assolto!”) facendola diventare una rotonda verità per i distratti posteri.
Passa dieci anni in quel labirinto. Ne esce pronta per la gloria. Andreotti è il suo mentore. Maria Angiolillo il suo divano da sera. Ci si siede due volte la settimana e si gode lo spettacolo di tutti i burattini ammalati di potere che le passano davanti genuflessi. Vincendo nelle aule giudiziarie, brilla di luce propria. Difende Pacini Battaglia, il banchiere “un gradino sotto dio”. Difende Sergio Cragnotti, quello del crack. Difende Raffaele Sollecito, intrappolato nel delitto di Perugia. E persino il grande Francesco Totti, colpevole di sputo in campo, ma anche assolto. Tutti la vogliono, tutti la cercano. A lei piace il sangue e l’inchiostro della battaglia. Quando esce “il Divo” di Paolo Sorrentino, si rimbocca le maniche, pronta a chiedere il sequestro del film per lesa maestà. Ma sua maestà Andreotti la dissuade.
Credendo di avere imparato il necessario, entra fatalmente in politica, dopo averlo escluso per tanti anni. Al primo giro, siamo nel 2006, punta sulla destra di Fini. Che dopo un po’ va a sbattere sugli scogli di Futuro e libertà e dei Tulliani. Lei si salva dal naufragio. La scialuppa gliela offre Monti, ma anche la nuova rotta si inzuppa e si ammoscia. Prova a candidarsi governatore del Lazio, respinta. Piange al funerale di Andreotti: “Era una persona unica. Non rara: unica”. Salta una legislatura. E quando agguanta Salvini, anno 2018, è la festa che aspettava. Il ministero che governa la bellezza di 3 milioni di impiegati pubblici suggella la nuova sintonia col Capitano che semplificando significa: pugno di ferro con gli immigrati, castrazione chimica per gli stupratori (“un atto di civiltà giuridica”), armi ai disarmati. Più una raffica di consigli legali gratis. Per esempio quello di “non rinunciare all’immunità per il caso Diciotti” che sventatamente Matteo aveva annunciato in tv (“processatemi pure”) offrendo il petto ai magistrati. E quello al sottosegretario Armando Siri, altro campione della Lega inquisito per corruzione: “Deve restare al suo posto!”; parola chiave “deve!”, purtroppo ignorata dal premier Giuseppe Conte.
La sua vita privata resta privatissima. Guadagna una fortuna, 2,8 milioni di euro lo scorso anno, ma senza indossare diademi, solo giacche, pantaloni, camicette bianche. Un tempo giocava a calcetto, ora preferisce sedersi nel consiglio di amministrazione della Juventus. Va in chiesa tutti i giorni e siccome è celiaca il prete ha una scorta di ostie senza glutine per lei. Non le piace mangiare, esibirsi, raccontarsi. Ha qualche amica, molte ammiratrici. Nessun fidanzato: “Gli uomini mi annoiano”. Dopo anni che desiderava un figlio, l’ha fatto da sola. Il bimbo ha sette anni e lei lo guarda continuamente “grazie alle telecamere che ho installato in tutta la casa e che controllo con il telefonino. Guardarlo mi fa star bene”. Se faccia star bene anche il pupo non sappiamo, glielo dirà lui tra qualche anno. Per il momento è la sua perentoria volontà che conta: “Lui è il mio angolo di paradiso”. Intendendo per paradiso proprio quello che vede, la casa, e la sua ricercata solitudine. La stessa che frequenta ogni mattina all’alba nell’ora di jogging intorno a via del Corso, prima del caffè in San Lorenzo in Lucina, proprio dove Andreotti aveva lo studio e il potere. È in quella piazza che il suo passato e il suo presente si toccano. Per il suo futuro da ministro restiamo in attesa.