Corriere della Sera, 19 maggio 2019
Biografia di John Bolton, il falco dei falchi
«Lo avreste mai detto? Adesso sono io che devo tenere a bada John». In effetti pure questa scena era difficile da immaginare: Donald Trump impegnato a moderare le spinte estremiste di «John» Bolton, 70 anni, dal 9 aprile 2018 il consigliere per la sicurezza nazionale. Da qualche settimana la posizione di «John» vacilla. Per ora il presidente lo difende, respingendo le critiche sollevate anche dai parlamentari repubblicani, preoccupati per la pericolosa escalation con l’Iran: «Tutto sotto controllo, decido io». In realtà il nuovo assetto di comando non funziona. Due figure si contendono «l’orecchio del presidente», l’ultima parola, la più influente. Da una parte il Segretario di Stato, Mike Pompeo, dall’altra Bolton. Con una differenza sostanziale: «Mike» cerca di indovinare e assecondare i desideri del boss; «John» di plasmarli o, almeno, condizionarli.
La lista dei soprannomi affibbiati a Bolton è estesa come la sua carriera. Il più gentile è «falco», appellativo ormai inflazionato di questi tempi. Per i nordcoreani è «una feccia»; per altri «un rettile» e così via. Tutti però gli riconoscono un’intelligenza perforante, una preparazione smisurata. Nel 1989 il senatore democratico Joe Biden (oggi candidato alla presidenza) gli rivolse queste parole: «Lei è troppo competente, avrei preferito che fosse uno stupido e non un avversario così efficace e brillante». Secondo la letteratura consolidata in materia, Bolton è classificato tra i «neocon», i teorici dell’interventismo americano, anche con le armi, se serve per diffondere la democrazia nel mondo. Il consigliere per la sicurezza sarebbe, quindi, l’ideologo della Casa Bianca. L’unico rimasto dopo la cacciata di Steve Bannon. Ma il diretto interessato non è d’accordo: «Non sono un neocon, sono un patriota, sono “Pro America”, metto gli interessi del nostro Paese al primo posto. La penso così da quando avevo 15 anni».
John è nato a Baltimora. Figlio di un pompiere e di una casalinga, riuscì a iscriversi a Yale, dove racconta nel suo libro di memorie, titolato (ovviamente) Arrendersi non è un opzione, si trovò immerso «in un ambiente di tronfi, compiaciuti sinistrorsi». Gli studenti protestavano contro la guerra in Vietnam, John pensava a dare gli esami. Però anche lui come Donald Trump, Bill Clinton e tanti altri riuscì a schivare la chiamata alle armi, arruolandosi nell’innocua Maryland National Guard. Una scelta, scrive nella sua autobiografia, di cui oggi «non è terribilmente orgoglioso». Incontra la politica da adolescente, nel 1964: collabora come volontario alla campagna presidenziale di Barry Goldwater, repubblicano roccioso, anti-élites, ma perdente.
Una traccia destinata a rimanere anche nella sua maturità. Terminati gli studi in legge, Bolton trova un posto da avvocato a Washington e frequenta assiduamente gli ambienti conservatori della capitale. Si sposa due volte, la seconda con una consulente finanziaria, Gretchen Smith. La coppia ha una figlia, Jennifer. Nel 1985 entra nel Dipartimento di Giustizia, con Ronald Reagan alla Casa Bianca. Da allora è presente in tutte le amministrazioni repubblicane. La svolta arriva nel 2005, quando George W. Bush lo designa ambasciatore alle Nazioni Unite. Al Senato la sua reputazione è terribile: la nomina non verrà mai ratificata. Entra comunque in carica il 2 agosto e ci rimarrà fino al 31 dicembre 2006. Diciassette mesi ancora vivi nella memoria dei diplomatici. È una stagione di conflitto permanente. Lo stile di Bolton è corrosivo: deride il segretario generale Kofi Annan, chiama «Euroidi» i partner del Vecchio Continente. Ottiene, però, anche un risultato: la prima ondata di sanzioni Onu contro la Corea del Nord. Ma non appena i democratici riconquistano il controllo di Capitol Hill, diventa chiaro che l’ambasciatore non verrà riconfermato.
L’ascesa di Bolton sembra finita. Non è così. «John» gira il Paese tra convegni e conferenze. Allaccia relazioni, fa un sacco di soldi. Da ultimo diventa commentatore di Fox News, la tv dei conservatori americani, punto di riferimento per Donald Trump. Da quella tribuna Bolton diffonde le sue tesi più spericolate: attacco «preventivo» contro la Corea del Nord, contro l’Iran; «misure punitive» per colpire Vladimir Putin; ritiro degli Usa dagli accordi internazionali, con l’eccezione della Nato.
Così, guardandolo in televisione, Trump matura l’idea di arruolarlo. Nel 2017 lo aveva selezionato per la carica di Segretario di Stato, poi lo ha ripescato nel 2018 come Consigliere nazionale per la sicurezza. All’inizio «The Donald», si racconta, lo aveva bocciato perché non gli piacevano i suoi baffi. Ma forse è solo una divertente leggenda. Bolton arriva alla Casa Bianca anche grazie alla sua rete. È ben collegato ai finanziatori dell’area iper conservatrice, come la famiglia Mercer e alla destra della comunità ebraica che appoggia incondizionatamente il premier israeliano Benjamin Netanyahu. È lo stesso ambiente da cui viene Jared Kushner, il genero-consigliere.
Basteranno queste protezioni per metterlo al riparo dagli umori di Trump? Stando a quanto è successo finora, la risposta è chiaramente «no». Però vediamo.