Corriere della Sera, 19 maggio 2019
Ricordi di Olga D’Antona
La casa è sempre la stessa, all’ultimo piano di un palazzo umbertino che affaccia su via Salaria, dalle parti di Porta Pia. Qui Olga D’Antona salutò suo marito Massimo, la mattina del 20 maggio 1999, mentre usciva con due borse gonfie di libri e carte, dopo avergli preparato e portato il caffè. Di solito era lui a farlo, ma quella mattina no. «Erano giorni in cui sembrava stanco e stressato – ricorda —, e lo aspettava un’altra giornata di intenso lavoro. Gli dissi ciao sulla porta, mentre entrava in ascensore». Arrivato in strada, centodieci passi più in là, fu abbattuto da cinque colpi di pistola, assassinato da un commando delle Brigate rosse per la costruzione del partito comunista combattente. Le nuove Br, furono ribattezzate, ma ormai sono vecchie pure quelle: uno sparuto gruppo di terroristi che tre anni più tardi uccise il professor Marco Biagi, smantellato nel 2003 dopo il conflitto a fuoco in cui morirono il poliziotto Emanuele Petri e il neobrigatista Marco Galesi, l’esecutore materiale degli omicidi. In prigione oggi ne sono rimasti quattro (tre ergastolani al 41 bis), una agli arresti domiciliari. Gli altri sono tornati liberi per fine pena. Comprese la «pentita» e la «dissociata» che parteciparono all’omicidio; la prima, condannata a dodici anni di reclusione, vive da tempo con un programma di protezione; la seconda, scontati vent’anni, è stata scarcerata due settimane fa.
«Quando ho potuto vederli in faccia mi sono apparsi non all’altezza del male che hanno provocato», ha detto Olga D’Antona lo scorso 9 maggio, durante la celebrazione della Giornata in memoria delle vittime del terrorismo. E ora ribadisce: «Hanno distrutto le nostre vite, ma anche le loro. Nadia Lioce segregata in prigione, Galesi ammazzato e sepolto senza nessuno, a parte un frate compassionevole, Diana Blefari Melazzi suicida in cella…».
Un piccolo nucleo di persone quasi tutte identificate dagli investigatori, decisi a riportare in auge il marchio brigatista che negli anni Settanta e Ottanta aveva mietuto decine di vittime, ma in tutt’altro clima. Un tentativo di riaccendere pretese rivoluzionarie senza più il contesto del passato, senza alcuna prospettiva. Ma che pur consumandosi in fretta ha ucciso quattro persone (brigatista compreso) e deviato molti altri destini.
La vita di Massimo D’Antona fu spezzata vent’anni fa, quella di sua moglie da allora è cambiata per sempre: «Io sono rimasta ancorata a quel giorno; tutto ciò che è venuto dopo è in qualche modo legato alla memoria di Massimo, compreso il mio impegno in Parlamento, sebbene non abbia mai pensato di potermi sostituire a lui». Vent’anni dopo, un faticoso album di ricordi che parte dal primo incontro e si snoda fino al marciapiede di via Salaria dove una lapide indica il luogo dell’agguato «a ricordo e monito», ci rammenta che il terrorismo uccide i simboli calpestando le persone. Senza riuscire a cancellarle, però.
Massimo e Olga si conobbero nell’estate del 1966, alla rotonda di Anzio, lui appena diciottenne e lei di un anno più grande, frequentando lo stesso gruppo di amici sul litorale romano. Lui suonava la chitarra, a lei piaceva cantare. «Ma Massimo doveva pure studiare, perché l’avevano rimandato in storia —racconta Olga – sebbene il suo punto debole fosse la matematica. Dopo abbiamo cominciato a frequentarci, all’inizio sempre con la scusa della musica che piaceva a tutti e due». S’innamorarono, si scelsero, e non si sono lasciati più. Si sposarono nel 1972, nel 1974 nacque Valentina. Massimo, laureato in Giurisprudenza, s’avviò alla carriera universitaria, Olga cominciò a lavorare nel settore delle assicurazioni, e poi nel sindacato.
«La musica è rimasta una costante della nostra vita, dopo pranzo ogni volta che ce n’era il tempo lui imbracciava la chitarra, si sedeva sul divano e cominciava a suonare, e io a cantare». Accordi e testi che hanno segnato la loro generazione: i Beatles, Bob Dylan, Joan Baez, ma anche composizioni classiche come i Concerti per pianoforte e orchestra di Mozart, l’ultimo disco ascoltato da D’Antona. Una passione coltivata insieme ad altri usi di quella gioventù vogliosa di conoscere e cambiare il mondo: «Partivamo per le vacanze con la sua moto Bsa, zaini e tenda legati sul portabagagli, viaggi senza mete prefissate ma decise sul momento. Una volta prendemmo il traghetto per la Jugoslavia e scendemmo lungo la costa fino all’Albania, dove allora non si poteva entrare; per tornare salimmo su un mercantile che ci sbarcò a Bari».
Col passare degli anni, una figlia e un’attività professionale sempre più intensa – D’Antona cominciò a insegnare Diritto del lavoro a Catania dove rimase 7 anni, poi a Napoli per altri 11, fino al traguardo della Sapienza a Roma – la voglia di viaggiare non si attenuò. Ultime destinazioni il Portogallo e la Turchia: «Era l’unico modo che Massimo contemplava per riposarsi, perché se stava a casa finiva immancabilmente per mettersi a leggere o scrivere. Anche quando ci vedevamo con gli amici, dopo un po’ sulle sue gambe compariva il computer per lavorare. E se stavamo soli, io mi mettevo davanti alla tv e lui a studiare su libri o documenti. Per questo molte sere mi chiedeva di andare a cena fuori, oppure al cinema. A proposito di film e musica volevamo vedere Buena vista social club di Wim Wenders, ma non abbiamo fatto in tempo».
Dal 1995, all’università s’era aggiunta la collaborazione con i governi: «Noi eravamo stati militanti politici, iscritti al Pci e legati alla Cgil, e lui non s’è mai considerato solo un accademico, un intellettuale racchiuso nei suoi studi. Ha sempre interpretato il proprio ruolo come forma di impegno anche pubblico, per contribuire a gestire i cambiamenti della società salvaguardando i diritti e la dignità dei lavoratori. Quando l’economista Giovanni Caravale, nostro amico, fu nominato ministro dei Trasporti nel governo Dini, gli chiese di affiancarlo e Massimo fu contento di mettere a disposizione le sue idee per risolvere i problemi; un’esperienza proseguita con Burlando e Bassanini, durante il governo Prodi, e poi con Bassolino ministro del Lavoro del governo D’Alema».
Fu l’incarico che gli costò la vita. Un professore che cercava di comporre i conflitti sociali – attraverso la regolamentazione degli scioperi nel settore pubblico, i protocolli sulla concertazione con i sindacati o la riforma della pubblica amministrazione – divenne il bersaglio dai neobrigatisti interessati solo a far esplodere le contraddizioni del sistema. «Hanno letto tutti i suoi scritti, hanno selezionato con cura l’obiettivo», dice la moglie guardando la libreria che raccoglie gli articoli e le monografie del marito.
Dopo D’Antona spararono a Biagi. Come i loro predecessori che negli anni Ottanta avevano ucciso Roberto Ruffilli, dedito a disegnare nuove architetture istituzionali, ed Ezio Tarantelli, che cercava vie d’uscita dalla crisi economica attraverso modifiche alla scala mobile; o ferito Antonio Da Empoli, consigliere economico di Palazzo Chigi, e Gino Giugni, padre dello Statuto dei lavoratori: «Anche se non era un suo allievo, Giugni considerava Massimo il suo successore, e quando subì l’attentato (nel 1983, ndr) lo andammo a trovare in clinica. Vivemmo la lunga stagione del terrorismo come un pericolo per la democrazia, costellato da attentati ma anche da grandi manifestazioni popolari contro la cecità della lotta armata».
La violenza politica degli anni Settanta aveva varcato i cancelli delle università. Alla Sapienza, nel ’77, il Gran Capo della Cgil Luciano Lama fu costretto alla ritirata dagli autonomi dopo duri scontri con il servizio d’ordine del sindacato e del Pci. L’anno seguente le Brigate rosse sequestrarono e uccisero Aldo Moro, che oltre ad essere presidente della Dc era professore alla facoltà romana di Scienze politiche. E nel 1980 l’omicidio di Vittorio Bachelet, vice-presidente del Consiglio superiore della magistratura ma anche lui docente, assassinato al termine di una lezione sulle scale di quell’ateneo. Lo stesso in cui insegnava Massimo D’Antona. Domani, ventesimo anniversario del delitto, a Scienze politiche gli verrà intitolata un’aula che si trova tra le due dedicate a Moro e Bachelet.
Un tributo che indica la continuità fra i terroristi della Prima Repubblica e quelli della leva successiva, che dopo oltre un decennio di silenzio hanno ricominciato esattamente dal punto in cui erano stati fermati gli altri: colpire non più i politici o altre figure simboliche del potere da abbattere, bensì i riformisti delle seconde linee, professori al servizio delle istituzioni per farle funzionare meglio e offrire soluzioni alle crisi provocate dai nuovi assetti: «Massimo era convinto che non si potesse fermare il cambiamento, ma che bisognasse governarlo per non alimentare disparità e ingiustizie. Che fosse necessaria una coraggiosa modernizzazione del Paese, mantenendo però la coesione sociale e la solidarietà fra generazioni». A questo scopo continuò a impegnarsi fino alla fine, senza avere mai manifestato segni di allarme: «Ma io non so, né saprò mai, se lui percepì qualche minaccia. Negli ultimi giorni lo vedevo più stanco del solito, pensieroso. Era sovraccarico di lavoro, e io attribuii a quello la sua apparente preoccupazione, ma dopo m’è venuto il dubbio che potesse aver intuito qualcosa di ciò che l’aspettava. Non me l’avrebbe detto comunque, per la sua discrezione e per non farmi preoccupare. E io, vent’anni dopo, mi porto dentro questo cruccio».