«Ira Sachs ha pensato a me ma non mi ha coinvolto nella scrittura. È rimasto molto misterioso. Quando finalmente l’ho letta, mi ha colpito l’originalità della storia. L’epicentro del film, la malattia di Frankie, finisce in secondo piano rispetto alle dinamiche tra persone costrette a passare del tempo insieme, arrivando da Stati Uniti, Inghilterra, Francia, e trovandosi in una grande casa come su un’isola, in un tempo quasi sospeso, costretti ad affrontare un momento di verità».
La malattia che incombe viene solo accennata, con leggerezza.
«Il film sfiora la tragedia senza essere mai tragico. È il vero talento di Sachs. Crea un dispositivo narrativo l’adunata famigliare intorno a una donna che sta morendo – dal quale estrarre brevi scene che fanno convivere emozioni spesso opposte. Il momento in cui Frankie partecipa al compleanno di una signora incontrata per caso è gioioso e straordinariamente triste. Quando offre al figlio un braccialetto come eredità, si capisce quanto sia affettuosa e violenta la relazione».
Frankie è una donna che si mostra vulnerabile, fragile. È molto diversa da altri suoi personaggi?
«Non è un personaggio. Non ho mai avuto l’impressione di aver recitato un ruolo. Nel film siamo tutti attori senza esserlo. Il risultato è abbastanza incredibile».
È difficile prepararsi a un addio?
«Frankie si preoccupa del futuro degli altri ma non riesce a farlo completamente, o nel modo in cui vorrebbe, perché ogni volta si ricorda che, a lei, il futuro manca. Tutto è raccontato senza pathos, retorica».
Parla anche della vanità nel mondo del cinema?
«L’amicizia tra Frankie e Irene, la sua truccatrice, è molto bella. Lei apprezza questa donna più giovane perché sa cogliere l’autenticità delle persone in un ambiente dove non sempre capita. "No bullshits with her", dice al compagno di Irene, un aspirante regista che tenta di sfruttare la situazione per mandare avanti un progetto di film. Frankie se ne accorge, fa esplodere la finzione».
C’è qualcosa che può ancora sorprenderla al Festival di Cannes?
«È bello accompagnare un regista come Sachs che non è mai stato in concorso. Cannes è una straordinaria cassa di risonanza. È anche l’opportunità di riunire persone diverse o in momenti diversi della loro carriera».
Un ricordo di Cannes?
«Quelli buoni sono molti. Preferisco ricordare i miei film meno amati a Cannes. Non significa che siano peggiori di altri o che non possano essere apprezzati tempo dopo».
Pensa a un film in particolare?
«Per I cancelli del cielo (portato a Cannes da Michael Cimino nel 1981, ndr) speravamo che il Festival potesse ripristinare una certa verità dopo le critiche. Non è successo. Quel film, che resta per me un’esperienza eccezionale, ha avuto un destino sfortunato. È stato in parte riabilitato successivamente, mentre Cimino resta una figura ancora controversa».
In concorso ritroverà Marco Bellocchio, con il quale aveva girato “Bella addormentata”. Le piacerebbe lavorare con altri registi italiani?
«Sono fiera di aver lavorato con Bellocchio come con tanti altri registi italiani che ho conosciuto. Penso a Mauro Bolognini, Marco Ferreri, i Taviani. Vedremo. Quale attrice non vorrebbe lavorare con Nanni Moretti, Paolo Sorrentino o Mario Martone? Con l’Italia resta un legame speciale».