Robinson, 19 maggio 2019
Atlante universale della follia
Jorge Luis Borges ha immaginato un uomo di chiesa che ogni sera, al termine delle proprie mansioni, si chiude in uno studiolo per disegnare ossessivamente carte geografiche non destinate a nessuno; in queste mappe, dove la geografia vera si mescola alla geografia fantastica e dove comunque i nomi sono dislocati, egli sparge indizi della propria vita, nasconde disegni di figure umane e mostruose, crea trompe l’oeil ed effetti ottici per cui altre immagini esistono in negativo oppure appaiono ruotando il foglio, sovrappone o pone a cornice complessi diagrammi labirintici, e soprattutto inserisce anche all’interno delle immagini bizzarri testi latini che sembrano descrivere tutt’altro. Transitivamente e metamorficamente, come nell’attività onirica, un neo su una guancia può essere una città, mentre una città o un golfo sono anche un sesso femminile; in particolare ricorre, con esiti deliziosamente feticistici, lo” stivale” dell’Italia. Assillato dall’onere di cartografare il mondo e di interpretarne la morfologia in chiave metafisica, quest’uomo è però un malato di mente, sicché il vero oggetto delle mappe è la sua stessa psicosi, tradotta in meravigliosi cristalli grafici da una tecnica e da un virtuosismo che fanno pensare all’arte di Escher.
In realtà, pur potendolo immaginare, Borges non ha mai scritto di quest’uomo, che è esistito veramente. Si chiamava Opicino de Canistris, nacque in provincia di Pavia alla fine del ’ 200, e lavorò come scrivano presso la corte pontificia di Avignone. Della sua vita sappiamo solo quanto al suo capriccio è piaciuto insinuare nelle mappe, spesso sciogliendo il dato biografico nel simbolismo e nel delirio esoterico: non è un caso che le medesime modalità autobiografiche si trovino anche nell’opera di un altro famoso malato mentale, Adolf Wölfli, che in trentacinque anni di reclusione manicomiale consegnò la propria vita a 25mila pagine di testo integrato da migliaia di disegni di rara bellezza. E come l’opera di Wölfli è stata “scoperta” e divulgata dal suo stesso psichiatra, Walter Morgenthaler, così le mappe di Opicino, contenute in due manoscritti vaticani, sono state riscoperte dal gruppo di Aby Warburg: Saxl, Panofski, e Salomon, cui apparve chiara la matrice patologica di un simile miracolo. I warburghiani si rivolgevano agli specialisti; a raggiungere un pubblico più vasto ha provveduto Sylvain Piron, con un’appassionata monografia comprensiva di riproduzione fotografica, purtroppo molto selettiva.
Incrociando Freud con Jung ( che dopo aver visto qualcuna di queste mappe commentò shakespearianamente: «C’è del metodo nella follia»), Piron ha buon gioco nel suggerire una ricca messe di possibili interpretazioni, spesso legate al senso di colpa per una nascita traumatica e “mostruosa”, alla sindrome edipica e alla sublimazione della figura materna nell’immagine dell’Ecclesia Triumphans. Tuttavia la bellezza di questi disegni e di questi maniacali diagrammi alfanumerici rifulge anche (se non soprattutto) in assenza di spiegazione, come per una sovrana autosufficienza. Guidato da uno straordinario senso compositivo, Opicino deduce una forma dall’altra, un sistema arterioso dal delta di un fiume, un occhio da una mandorla bizantina che iscrive un Cristo che come attraverso un prisma si riflette in un altro Cristo capovolto, le cui braccia definiscono in negativo le fauci di un mostro: e ovunque, nascosti come in un gioco della Settimana Enigmistica, falli, vulve, bocche. Ci parla della creazione di Dio, Opicino, o di quella del Diavolo? Sicuramente ci parla dei mostri, intesi come tali e, alla latina, come prodigi; e la commovente raffigurazione di se stesso bambino, sulla circonferenza di un sistema di cerchi concentrici corrispondenti agli eventi della sua vita e alle sfere celesti, ci appare come una rivelazione e una firma: io, Opicino, signore dei mostri e ordinatore del caos.