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 2019  maggio 19 Domenica calendario

Adam Gopnik e le mille luci di Manhattan

«Ricordo la mia prima tempesta di neve, nel 1968. Se esistesse un paradiso, lo vorrei con un cielo basso grigio- violaceo». Adam Gopnik ha le sue fissazioni: la passione per il bianco perfetto della neve era nata in Canada, dove i genitori si erano trasferiti da Filadelfia. L’ha messa a frutto per scrivereL’invenzione dell’inverno, tra i tanti caratteri della modernità che dobbiamo al romanticismo. La stagione fredda, incubo dell’umanità che doveva scaldarsi e nutrirsi, ha avuto all’epoca di Goethe il suo restyling poetico, letterario, sportivo, festoso e commerciale.
Per i romanzieri il punto di vista è tutto. Vale anche per gli scrittori che raccontano il mondo. Contano l’attenzione ai dettagli, la scelta di entrare in scena o tenersi in disparte, la miscela tra letture e vita vissuta, le teorie che come un flash illuminano comportamenti e situazioni. Gopnik ha coltivato e perfezionato l’arte sulle pagine del New Yorker, dove scrive da una trentina d’anni.
C’era arrivato grazie a un articolo sul baseball e la storia dell’arte. Da Parigi alla luna ( Guanda) raccoglie i suoi scritti da americano a Parigi. Una casa a New York è il seguito: quando i due piccoli Gopnik vengono ricondotti «nell’abbraccio dell’educazione progressista americana». Con i francesi, si sa, sono molte le occasioni di attrito: investiranno anche le «french fries» studiate da Roland Barthes in Miti d’oggi e ribattezzate «freedom fries».
Ma come si diventa Adam Gopnik? Qual è l’apprendistato? Cosa bisogna coltivare e cosa evitare? Possiamo prendere Io, lei, Manhattan come guida (naturalmente non è colpa della guida se i risultati non saranno all’altezza, ma abbiamo una direzione da seguire). In uscita da Guanda, ripassa gli anni della formazione. I primi trascorsi a New York con la moglie Martha, sposata in una gelida mattina di dicembre. Erano gli anni Ottanta, quando una giovane coppia poteva ancora sognare una casa a Manhattan, se si accontentava di nove metri quadrati nel seminterrato.
Tre anni vissuti in armonia, ricorda Gopnik. Perché un litigio richiede spazio, bisogna allontanarsi abbastanza per far lo sguardo cattivo. Seppellito il primo luogo comune, Adam Gopnik tira fuori una delle sue teorie- flash: la differenza tra i matrimoni felici e i matrimoni infelici sta nel fatto che nelle coppie felici ricorre sempre lo stesso litigio. Un battibecco soltanto, governabile e quasi rituale. Con Martha, l’oggetto del contendere era la carne al sangue, che lei odiava e lui adorava.Quando il seminterrato diventa un loft a SoHo – la SoHo dei giovani artisti che occupavano le fabbriche abbandonate, tenuti d’occhio da galleristi come Ileana Sonnabend e Leo Castelli – i metri quadri crescono con l’ambizione teorica. Adam Gopnik discute di opere d’arte e denari, tendendo a debita distanza – e anzi ribaltando – il luogo comune dell’arte tradita dal commercio.
Pian piano, perde «la fede nei rettangoli» che gli era stata inculcata dai genitori, professori universitari innamorati del minimalismo. Comincia ad apprezzare il coniglio cromato con carota cromata di Jeff Koons. La fine dell’arte, o qualcosa di molto vicino, per il critico australiano Robert Hughes (più tardi scriverà La cultura del piagnisteo, contro le minoranze che pretendono un posto nella letteratura o nell’arte a risarcimento dei torti patiti). Hughes disprezzava, Koons lavorava e vendeva: Gopnik racconta le loro scaramucce (una guerra generazionale, in verità) come uno spettacolo appassionante. Un ottimo antidoto per non ricascarci, quando se ne presenterà l’occasione.
Adam Gopnik scrittore debutta aggiornando le schedine alla Frisk Library («facevo fuori vecchi artisti che un tempo erano giovani» ). Poi arriva il lavoro da cicerone al MoMA: «parlavo di vecchi artisti che un tempo erano stati nuovi». Un tumler, aggiunge: un intrattenitore al pari dello zio che vendeva amido da stiro alle signore ( proprio come il padre di Richard Ford, che lo rievoca in Tra loro).
Al museo incontra un paio di matti degni di nota, ma tutto sommato innocui. Uno vuole completare l’opera di Vincent van Gogh con «il ritratto mancante del fratello Theo». L’altro decide che a Guernica manca un po’ di colore, e decide di ricamare – sì, ricamare – una copia in ocra e verde lime. Il risultato avrebbe fatto bella mostra di sé al ballo del Metropolitan dedicato al camp.
I personaggi bizzarri ricordano il barbone newyorchese che minacciava una storia orale della città, riempiendo taccuini su taccuini ( e invece scriveva e riscriveva sempre la stessa storia su sua madre). Sappiamo tutto perché lo ha raccontato Joseph Mitchell, in Il segreto di Joe Gould. Ormai una leggenda vivente, Mitchell aveva la sua stanza nella redazione del New Yorker.
Prima, il giovane Gopnik scriveva didascalie di moda:” La semplice logica delle camicie estive” o” Chiaroscuro chic”. Per GQ, la rivista dove Hannah diGirls ( la serie scritta e diretta da Lena Dunham) trova il suo primo lavoro. Da qui «un cedimento generazionale che dura mezzo secondo», è lo stesso Gopnik a cronometrare: «Siamo stati gli ultimi a coltivare l’ambizione senza vergognarci».
Molto più di mezzo secondo dura il ricordo del fotografo e ritrattista Richard Avedon, l’unico capitolo di Io, lei, Manhattan che avanza con fatica. Per contorno, il bestiario metropolitano: scarafaggi in una casa e ratti nell’altra, dove i muri trasudavano melassa, a ricordare che lì c’era uno zuccherificio.