la Repubblica, 19 maggio 2019
Biografia di Bielsa, El Loco
El Loco, il Matto: questo è il soprannome di Marcelo Bielsa, che Guardiola giudica il miglior allenatore del mondo. Nato nel 1955 a Rosario, come Che Guevara, Menotti e Messi, ha lanciato Sensini, Balbo, Batistuta. Il Newell’s Old Boys gli ha intitolato lo stadio. Tata Martino, Almeyda, Gallardo, Pochettino, Sampaoli si riconoscono suoi allievi. Un suo fratello è stato torturato sotto il regime di Videla, poi è diventato ministro degli Esteri nel governo Kirchner. Ha un po’ del fanatico (i giocatori si pesano prima di ogni allenamento) e un po’ del visionario. Non rilascia interviste individuali da almeno vent’anni, in compenso non si sottrae alle domande, anche le più pungenti, in conferenza stampa. Non segue le partite seduto in panchina ma su una cassa, una ghiacciaia, quel che capita. Nel 2015 fu premiato dalla Federcalcio a Coverciano e arrivò in auto da Marsiglia. E, fiero del riconoscimento, convocò moglie e madre, che arrivarono in aereo (a sue spese). Preparò una relazione di 50 cartelle, corredata da diapositive, salutata da un’ovazione dei tecnici italiani, Antonio Conte in prima fila. Dice di aver analizzato 50mila partite. Dice che in tutto i moduli di gioco sono 28. Gioca con un 4-3-3 che può diventare 3-3-3-1 come 3-3-1-3. Ma questo, detto tra noi, conta fino a un certo punto.
Non è banale. A Marsiglia si dimise dopo la prima di campionato, persa in casa col Caen. A Lilla lo licenziò la società perché, senza permesso, era volato in Argentina a dare l’ultimo saluto a un amico, malato terminale. Con la Lazio aveva firmato un contratto, ma si era poi tirato indietro. Lo voleva Zanetti all’Inter, ma nessuno gli ha dato retta. Qualche sua frase: «Voglio un calcio più aggressivo e meno paziente. Per due motivi: sono ansioso di natura e sono argentino». «La gioia della vittoria dura 5’. Eccitazione, felicità, ma solo 5’. Poi c’è un grandissimo vuoto e una solitudine indescrivibile». «C’è la sconfitta che serve e la vittoria che non serve». «Fiducia per me è sinonimo di relax. Preferisco la paura, perché costringe a stare sull’attenti».
Quest’anno allenava a Leeds, in B. Con l’Aston Villa segna l’1-0 con un avversario a terra. Mancano 13’ alla fine. Impone ai suoi, riluttanti, di far pareggiare l’Aston Villa. Finisce 1-1, avesse vinto sarebbe stato ancora teoricamente in corsa per la promozione diretta (pur con una distanza incolmabile da recuperare in differenza reti), ma ha voluto fare il signore e così deve passare dai playoff. Vince 1-0 sul campo del Derby County ma perde 2-4 il ritorno in casa. Fino all’85’ si stava sul 2-2. Resta in B, per giunta sfottuto dai giocatori (3) del Derby che portano le mani agli occhi nel gesto del cannocchiale: il loro allenatore, Lampard, aveva accusato Bielsa di aver inviato uno spione a studiare i suoi allenamenti. Inchiesta aperta dalla Federazione. E Bielsa: «Voglio facilitare il lavoro d’investigazione, è tutto vero. Ho fatto così da ct di Argentina e Cile, l’ho fatto da quando sono in Inghilterra. Non è illegale, non è vietato». Paradossale: il miglior allenatore del mondo, secondo Guardiola, ci tiene a sapere cos’abbia in mente Lampard, un pivello in panchina, e poi ha l’onestà di ammetterlo pubblicamente. Il Derby, squadra e staff, festeggia l’approdo alla finale con l’Aston Villa il 27 maggio. Festeggia (trascrivo dalla Gazzetta) bevendo 206 bottiglie di Prosecco, 53 gin tonic, 7+5 Jaegermeister, 65 vodke, 54 sambuche, 38 tequilas, più birre e whisky di cui mancano le quantità che immagino alte, soprattutto per la birra. Più una Coca light. Conto: 2.800 sterline (3.200 euro). Commento: non doveva essere un Prosecco memorabile. Aperta un’indagine per dare un nome e un volto a chi ha bevuto la Coca light. Quanto a Bielsa, andrà da un’altra parte e a Leeds saranno tanti a chiamarlo il Matto. A me però certi matti piacciono (8), quando sono ai confini della poesia.
A proposito, angolo della poesia. Di Sylvia Plath, ultimi quattro versi: “Stare sdraiata è per me più naturale./Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,/e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:/ finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me”. Di Gianmario Missaglia, completa: “Deus,/vorrei parlare con un po’ di calma/di questa situazione./Sono accusato di un delitto metafisico/e la pena è sconosciuta./La città è sparita, la storia è niente./Spero che almeno tu/sappia che cosa stai facendo”.
In quest’angolo c’è posto per Paolo Ciarchi, suonatore di tutti gli strumenti che esistono ma anche di tubi, sedie, bidoni, vetri.Ha suonato con Dario Fo ("Ho visto un re” è anche opera sua), Ivan Della Mea, Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, lungo la strada della canzone popolare e politica. Il suo funerale laico, ieri al teatro Franco Parenti, doveva essere una festa, «perché così sarebbe piaciuto a lui». Lui era in una cassa di legno chiaro coperta di girasoli. Come al funerale di Veronelli, a Bergamo, suonava la banda degli Ottoni a scoppio. “El me gatt”, “El Luisin”, ma anche “Tammurriata nera”. E “L’Internazionale”, naturalmente. Qualche pugno chiuso, molti occhi rossi, e memorie, e cuori.