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 2019  maggio 19 Domenica calendario

Luciano Benetton torna a metterci la faccia. Intervista

I giorni del ponte sono stati i giorni in cui divenne all’improvviso sinonimo di avidità il nome Benetton, che sino a quel momento, e qualche volta magari esagerando, significava per tutti integrità, ingegno e lavoro, guadagno privato e amore per il bene pubblico, capitalismo familiare e coraggio civile. E invece di colpo non eravate più imprenditori ma prenditori. Luciano Benetton, è vero che il crollo del ponte Morandi a Genova con i suoi 43 morti ha ferito lei e ha ucciso suo fratello?
«Guardi che siamo forti noi Benetton. E sappiamo distinguere, sappiamo aspettare. E non per il cinismo di chi ne ha viste tante. L’etica della responsabilità, la modernità, il rispetto delle regole per un imprenditore non sono facoltative, ma sono le condizioni stesse della sopravvivenza. La manutenzione dei ponti e gli investimenti sulle strade sono obblighi imposti dal contesto prima che una libera opzione intellettuale. Mi creda, chiunque ci conosce appena un po’ non ha mai dubitato di noi, tutti sanno che non facciamo parte di quel capitalismo che è un’avventura tra politica e malaffare. Non siamo né papponi di Stato né razza padrona».
Lei è considerato un imprenditore di sinistra. Si sente più esposto per questo?
«Come imprenditore rispetto e chiedo rispetto da tutti i governi. Io sono stato, molti anni fa, nel Partito repubblicano e rimango fedele a me stesso. In quelle forme e in quei limiti io, certamente, sono un uomo di sinistra».
In quest’Italia non si sente crepuscolare e nostalgico con i suoi
United Colors di sinistra?
«Mi permetta di dirglielo con una certa enfasi: gli United Colors sono tornati anche come stile di vita. In passato avevamo previsto e un pochino imposto il meticciato culturale, i seni neri e i bimbi bianchi, l’integrazione, la mescolanza di generi e culture».
Adesso che quello stile è offeso ci siete di nuovo voi a difenderlo?
«Non come provocazione, ma come matura fedeltà a noi stessi».
Nel 2017 lei mi raccontò che la fabbrica dei colori aveva spento i colori e che lei, tornando nella sua azienda rovinata dai manager, avrebbe provato a riaccenderli. Era determinato ma non sicuro di farcela.
«Tra storia e nuova fantasia, prevedo che nel 2020 la mia azienda tornerà in attivo. Ce la faremo. Abbiamo già ridotto il disavanzo del quaranta per cento: era di 180 milioni e adesso è sotto i cento. La squadra è quasi al completo. Oliviero Toscani ha chiamato lo stilista Jean-Charles de Castelbajac nuovo direttore artistico, abbiamo smesso di chiudere negozi e cominciamo ad aprire i nuovi. Ne prevedo cento in un anno».
Perché è tornato a fare la pubblicità con la sua faccia?
«È l’espressione giusta. Sono tornato a metterci la faccia. E quella foto, di Oliviero Toscani, con Ayak Mading, una bellissima diciottenne sudanese…».
…ma non è un ragazzo?
«È una ragazza, alta più di due metri, con una naturale espressione di gioia sul viso. Ma è vero che è così moderna da non avere genere. Sembra che sia venuta fuori da una delle nostre vecchie foto».
Ha compiuto 84 anni la settimana scorsa. È un’età da modello?
«All’inizio non volevo. Poi Oliviero mi ha messo in mezzo. È un altro azzardo, e io con lui li ho sempre fatti. Oliviero vede le cose un po’ prima degli altri. Voglio dire che, benché sia un gioco divertente, metterci la faccia a 84 anni non è una frivolezza estetizzante. Io sono vecchio e Ayak è giovane, io bianco e lei nera, io ricco e lei povera».
Oliviero dice che i vostri sorrisi sono uguali.
«No, sono uguali i maglioni, l’abbigliamento… Torna anche la nostra vecchia voglia di interrogare le immagini. Ayak è il futuro come ce l’eravamo immaginato, è la nostra fantasia superata dalla realtà. Per me è come avere accanto una sorella».
Dopo la morte di suo fratello Gilberto, lei si occupa anche di autostrade e aeroporti?
«Non l’ho sostituito, ma vengo coinvolto. Rimango fuori, ma non mi sottraggo alla responsabilità del nome che porto».
Tocca ai Benetton di seconda generazione, agli eredi? L’amministratore delegato della holding è in uscita. Chi lo sostituirà?
«Ogni ramo della famiglia ha il suo rappresentante in consiglio di amministrazione. Ma credo che sia un errore cercare e imporre l’erede. Ci sono gli azionisti e poi ci sono i manager. A sostituire Marco Patuano non sarà un Benetton. Non le faccio ancora il nome, ma le posso dire che sarà un interno».
Lei dice che siete forti, ma l’anno è stato terribile, e senza il suo celebre faccione è difficile pensare che gli altri Benetton, "invisibili al mondo", possano farcela. È morto prima il marito di sua sorella Giuliana, poi suo fratello Carlo, e infine suo fratello Gilberto forse di crepacuore.
«Mio fratello non è morto di crepacuore per le aggressioni subite dopo il crollo del ponte. Era forte anche lui. È però vero che stava già male e che questo lo esponeva di più alle ferite dell’orgoglio, alla frustrazione e all’impotenza dinanzi alla terribile disgrazia».
Disgrazia?
«Una disgrazia imprevedibile e inevitabile, purtroppo».
Non c’è stata nessuna responsabilità di cattiva manutenzione e di scarsi investimenti?
«In quei giorni ce lo siamo chiesto anche noi. Ma sono sicuro della buona fede dei manager di Autostrade. Nessun imprenditore può immaginare di risparmiare sulla manutenzione dei ponti e delle autostrade. Non sarebbe solo un delitto da irresponsabili, sarebbe anche un errore da stupidi. Come si possono gestire le autostrade risparmiando sulla sicurezza?».
Il ponte era monitorato. Sottoposto a lavori continui. Si sapeva che era a rischio?
«Certamente non si sapeva che era a rischio di crollo. Era però sovraccarico. C’è un’indagine molto complessa che stabilirà le cause e le concause. Con il senno del poi dico che si doveva diminuire il traffico».
Autostrade avrebbe potuto diminuirlo?
«Sì, avrebbe potuto. E se si fosse fatta la Gronda, il traffico sarebbe certamente diminuito».
È vero che all’indomani della sciagura avete fatto una festa a Cortina?
«Anche se non è vero che era una festa, quella riunione di famiglia nel giorno di Ferragosto andava fermata. Ma proprio perché non era una festa, nessuno ci ha pensato. E davvero c’è bisogno che io dica che nessuno della famiglia ballava sui tavoli? Per effetto di quel misterioso conformismo che a volte in Italia contagia anche i migliori siamo stati descritti come una banda di feroci gaudenti assetati di Champagne davanti ai morti. C’è bisogno che le dica che quel giorno eravamo, come tutti e più di tutti, testimoni sbigottiti di una terribile sciagura?».
Perché lei non è andato a Genova?
«Perché dal governo ci hanno subito accusato ingiustamente, senza conoscere le cose. E siamo stati additati improvvisamente come una famiglia di avidi speculatori: "dalli ai Benetton". E capisco che in tanti, in buona fede, ci abbiano pure creduto».
Sta evocando la bottega degli untori. Manzoni sacrifica al conformismo persino il suo Renzo che per "funesta docilità" si convince anche lui che la fame di Milano sia colpa di quell’uomo innocente che la folla cerca di linciare.
«Come potevamo affrontare una simile demagogia? Sono andati i rappresentanti dell’azienda. In quel momento di confusione e di dolore, davanti a quelle accuse orribili in tv ho persino temuto per la sicurezza dei ragazzi, dei miei nipoti. Chiamarsi Benetton poteva essere un rischio. Fortunatamente non è accaduto nulla, perché la gente che ci conosce non si è fatta contagiare da quell’odio così ingiusto».
Non avete pensato a un gesto di commozione verso la città?
«Certo. E ci pensiamo ancora. Ma tutto deve essere sobrio e pulito. Non si risponde alla demagogia con la demagogia».
Perché vi hanno attaccato?
«Qualcuno perché aveva interesse ad attaccare la politica dei precedenti governi e qualcuno, come appunto il Renzo manzoniano, magari ha creduto davvero che avessimo delle colpe e delle responsabilità».
Sotto accusa sono finiti anche i pedaggi. È vero che sono troppo alti e che i contratti sono di privilegio?
«Ci siamo guardati in faccia e ovviamente abbiamo posto ai vertici dell’azienda la stessa domanda. Le tariffe di Autostrade per l’Italia sono circa il 40% più basse che in Spagna e circa il 15% più basse che in Francia. Ovviamente ci sono delle variabili di tante specie, come la fiscalità e la lunghezza delle autostrade. Qui ho le tabelle dettagliate: sono dati pubblici. Anche negli aeroporti ogni viaggiatore paga una piccola quota che va all’azienda. Pochi ne parlano, ma Aeroporti di Roma sono un’eccellenza riconosciuta nel mondo. Fiumicino è nella classifica dei primi dieci aeroporti ed è il primo in Europa secondo l’Airport Council International (Aci), che per il secondo anno consecutivo lo ha premiato con l’Airport Service Quality Awards. Davvero si può credere che la stessa azienda sia virtuosa negli aeroporti e viziosa sulle autostrade?».
Fiumicino è l’aeroporto di Alitalia. I giornali scrivono che il governo vi ha chiesto di partecipare al salvataggio di Alitalia.
«Mi sono informato: non c’è stato nessun incontro, nessuna proposta, niente di niente».
Non ci crederà nessuno. Cambio domanda: secondo lei, Alitalia deve restare italiana a tutti i costi?
«Alitalia sta a cuore a tutti gli italiani e credo che non rimanga molto tempo. La cosa più importante è il marchio italiano, la bandiera. C’è l’esempio della Swiss Air che è fallita, ma il marchio è ora gestito da Lufthansa».
Ma voi siete interessati?
«Gli Aeroporti di Roma e Alitalia hanno certamente interessi comuni. Ma non sono arrivate proposte».
Può il governo trattare per Alitalia e al tempo stesso togliervi le concessioni autostradali? Non ci sarebbe il sospetto di uno scambio?
«Non so se davvero si possano revocare le concessioni. Di sicuro bisogna decidere: o siamo razza padrona o siamo imprenditori affidabili».
Si parla molto anche della vostra quota in Generali.
«Non abbiamo alcun rappresentate nel consiglio e ci sta bene così. Crediamo però che le Generali debbano essere italiane. Ci sono anche Caltagirone, Del Vecchio e Mediobanca. È un bel pacchetto italiano che, tutti e tre insieme, vorremmo rafforzare».
Su Alitalia e Generali lei mi sembra sovranista.
«Su Alitalia e Generali sì. Non ho paura delle parole».