La Stampa, 19 maggio 2019
Intervista all’architetto giapponese Tadao Ando
Ho intervistato l’ architetto giapponese Tadao Ando a Chateau La Coste, l’albergo vicino ad Aix-en-Provence dove Ando ha inaugurato una mostra di suoi disegni nel Centro d’arte contemporanea che ha progettato nel 2011.
Ha iniziato come pugile e non ha mai frequentato l’università. Come ha imparato a fare l’architetto?
«Vengo da una famiglia povera che non poteva farmi studiare. Da adolescente la nostra casa, a un solo piano, venne ampliata a due. Tutti i giorni vedevo il carpentiere al lavoro: la sua dedizione e passione mi colpirono, iniziai a interessarmi alle costruzioni».
Cosa c’entra la boxe?
«Vicino a casa c’era una palestra di pugilato, non mi sembrava difficile e per gli incontri pagavano. Diventai bravo e iniziai. C’è un collegamento con l’architettura: sei da solo sul ring e sei da solo su un progetto».
Perché ha smesso?
«Per diventare un gran pugile o un gran architetto occorre talento. In palestra incontrai un ragazzo, si chiamava Harada e quando lo vidi combattere capii che non sarei mai diventato bravo come lui».
Come sapeva di avere talento per l’architettura?
«Mi interessava, e fortunatamente Osaka è vicino a Kyoto, che a 17 anni visitavo spesso. Poi iniziai a leggere libri: dal libraio vicino a casa trovai quello su Le Corbusier, non potevo comprarlo, così ogni giorno andavo lì a studiarlo».
Il suo primo progetto?
«A 28 anni il fratello di un amico mi chiese di progettare una casa per tre persone a Osaka. Oggi lì c’è il mio studio. Dopo, nel 1976, ebbi un’altra richiesta e progettai la Row House di Sumiyoshi».
Che rapporto ha con i suoi committenti?
«Creo con loro. Non accetto lavori da chi non mostra passione per il suo progetto» .
Come si mette in contatto con i committenti?
«Mi cercano loro. 25 anni fa, mi telefonò Giorgio Armani. Non credetti che fosse lui e riagganciai. Mi richiamò una settimana dopo e allora capii che era veramente lui».
Come si lavora con Armani?
«A Milano l’ho visto lavorare in atelier con una risolutezza, una velocità e una passione che mi colpirono».
Armani è stato il suo primo cliente in Europa?
«No, il primo è stato Luciano Benetton che ha voluto costruire una scuola a Villa Pastega, vicino a Venezia. Voleva raccogliere lì 100 studenti da tutto il mondo per studiare. È stato un progetto di rinnovamento di un edificio classico del XIX secolo».
Ama la luce e l’aria della Provenza. Conosceva questa zona prima di incontrare Paddy McKillen e iniziare a progettare lo Chateau La Coste?
«Ho visitato Marsiglia nel 1965 e la struttura di Le Corbusier, un progetto di edilizia abitativa multi-familiare. Per me è il suo più grande lavoro. Ho anche visitato la chiesa romanica di San Lorenzo. E ho capito in quel momento che la priorità è creare qualcosa che colpisca emotivamente. C’è sempre questo momento in cui nasce qualcosa di nuovo. Inizialmente Paddy McKillen e Bono degli U2 mi hanno fatto visita in Giappone. Quando ho nuovi clienti, voglio capire la loro personalità e la loro mentalità, così li ho portati alla Chiesa della Luce vicino a Osaka. Bono ha chiesto se fosse permesso cantare e così ha cantato Amazing Grace».
Quando è stata costruita la Chiesa della Luce?
«Nel 1989. È un mondo in cui non c’è differenza tra natura, luce e forma fisica umana; tutto è collegato. Non volevo alcun vetro, perché il vento che entra è molto importante».
Qual è il suo legame con François Pinault, a Parigi e a Venezia?
«Me lo presentò Karl Lagerfeld, feci Palazzo Grassi a Venezia, seguiti da Punta della Dogana e dalla Borsa di Commercio di Parigi» .
In che modo un architetto si avvicina a una città come Venezia?
«Le forme fondamentali sono il cerchio, il quadrato e il triangolo, così alla Dogana ho usato il quadrato e alla Borsa di Parigi una struttura circolare».
Ha iniziato con piccole case per i poveri nella sua città, Osaka, e da quel momento ha lavorato in tutto il mondo. C’è qualcosa che accomuna tutti i progetti?
«Il rapporto dell’essere umano con la natura. Alla Row House di Sumiyoshi guardi il cielo dal cortile e quel cielo ti appartiene».
Non ama i grandi edifici?
«Per certi progetti ovviamente sono necessari, ma preferisco i progetti più piccoli che ti permettono di connetterti con il cuore. Sto progettando un piccolo hotel di dieci stanze per Paddy McKillen a Gion, a Kyoto. Poi c’ è un quartiere a Tokyo costituito da un’isola artificiale fatta di rifiuti compattati, delle dimensioni di un campo da golf. Dal 2005 circa ho raccolto 70.000 persone e ho creato un movimento per iniziare a piantare alberi su questa isola di spazzatura, che oltre un decennio dopo è diventata verde e piena di alberi e verrà utilizzata per gli eventi olimpici nel 2020».
La sua giornata?
«Arrivo in ufficio alle 10. E dopo che ho avuto il cancro, riposo per un’ora dopo pranzo, poi lavoro e alle 18 vado in palestra. Sei giorni a settimana. Mi mancano cinque organi: tra cui pancreas, cistifellea e milza, ma l’ambizione mentale permette di vivere a lungo».
Nuovi progetti?
«Due o tre strutture in Naoshima. Nei Paesi Bassi stiamo estendendo e ristrutturando il museo Kröller-Müller a Gelderland, con la sua collezione di Van Gogh».
È vero che 27 persone lavorano per lei e ha un solo ufficio?
«Sì. Non voglio espandermi, mi piace controllare in prima persona».
I risultati più importanti della sua attività?
«La Row House of Sumiyoshi, la Chiesa della Luce, la Borsa di Commercio di Parigi e Punta della Dogana a Venezia, credo che lasceranno un segno».
Come affronta l’età e la morte?
«Voglio creare uno spazio che venga ricordato, qualcosa che faccia appello al cuore, al corpo. Questa è la filosofia che sta dietro al mio lavoro».
(traduzione di Carla Reschia)