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 2019  maggio 19 Domenica calendario

Ritratto di Martin Scorsese

La prima cosa che ti colpisce è la velocità con cui parla, e credo sia dovuto all’infanzia a Little Italy: un modo di conquistare subito il campo dell’interlocutore, potenzialmente ostile. Di travolgerlo con un approccio torrenziale, e nello stesso tempo ammaliarlo mettendosi a nudo. Conosco poche persone seducenti come Martin, ma è un talento che nasce dalla sincerità con cui ama condividere. Non si tratta mai di un modo di imporre la propria verità, ma il contrario: la necessità di rivelarsi sino in fondo, per poi ascoltare con analoga passione. 

Oggi racconta che in quei tempi di Elizabeth Street l’unica alternativa al diventare un criminale era farsi prete, e questi due poli opposti sono perennemente presenti nel suo cinema: da un lato l’eterna e misteriosa presenza del male, dall’altro la possibilità di redenzione. Una volta abbiamo parlato del concetto di peccato e gli ho chiesto se credeva in Dio: lui mi disse «non lo so, ma sono cattolico». Non era del tutto soddisfatto, però, della risposta, e mi richiamò per approfondire: «Credo che Dio esista. Ma proprio perché sono cattolico so che ci ama: non può essere un torturatore». In questi ultimi anni, la presenza della fede nei suoi film è diventata ancora più evidente: all’epoca di Silence ha avviato un intenso dialogo con Padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, e, attraverso lui, anche con Papa Francesco. Si tratta di elementi centrali nella sua esistenza che tuttavia tiene per sé, come se parlarne corrompesse un percorso sofferto e sincero. 
È sorprendente come oggi sia attento all’eleganza: basta vedere le foto dell’epoca di New York New York per scoprire un uomo del tutto indifferente al proprio aspetto. Non si tratta di semplice imborghesimento, ma la scelta di sottolineare anche con la forma un percorso nel quale non sono mai scomparsi né i tormenti né le speranze: Martin sa bene che ogni esistenza è segnata da slanci e cadute, ma oggi rifiuta un finale senza redenzione, e non scherza quando racconta che Hollywood lo ha aiutato moltissimo con i suoi happy ending. Come Travis Bickle in Taxi Driver o Jake La Motta in Toro Scatenato, Martin è un uomo dalle passioni vulcaniche, che a differenza dei suoi eroi è riuscito a trasformare un’energia rabbiosa in potenza espressiva e arte pura. 
Molto si deve anche a un talento inimitabile, ma tutti i suoi protagonisti tormentati ne rispecchiano i travagli, e questo è valido sia per gli eroi fragili di Silence che per l’umanissimo Gesù delle Ultime tentazioni di Cristo. Una volta parlammo di Toro Scatenato, ed era turbato quando spiegava che era la storia di «un uomo che aveva solo un talento: quello di far male. Ciò lo porta alla gloria dentro il ring, ma alla disgrazia appena esce dal quadrato». Il suo genio registico gli ha consentito di esprimere questo concetto già dai titoli di testa, senza tuttavia alleviare il tormento sull’esistenza del male e l’incontrollabilità delle passioni. Non conosco persona al mondo che abbia eguale competenza di cinema, e nessuno che ne sappia parlare in maniera così coinvolgente: una volta mi spiegò che per preparare Good Fellas aveva studiato Divorzio all’italiana, e di fronte al mio sguardo incredulo mi chiarì tutte le assonanze tra i due film, a cominciare dall’uso della voce off, il montaggio rapidissimo e perfino l’arco morale del protagonista. Nel cinema Martin sa vedere cose che altri non vedono, e, come sottolineò in quella occasione, la sua scelta estetica non prescinde mai da quella etica, anzi, l’elemento formale è un modo per riflettere su quello morale. Ha un profondo rispetto del pubblico al punto da considerare non riusciti i suoi film che non hanno avuto successo al botteghino. «Qualcosa non funziona» dice, soffrendo ancora, «e la responsabilità è del regista, non dello spettatore». 
Fino ai quarant’anni conosceva in profondità soltanto il cinema e il rock, ma da allora si è costruito con umiltà una cultura letteraria e storica, e alcune scelte di questi anni nascono da queste scoperte, come il progetto di un film su Teddy Roosevelt e quello sul massacro degli indiani Osage, parallelo alla nascita dell’Fbi. Ma forse nulla lo appassiona come l’idea di adattare Home, il romanzo della più spirituale delle scrittrici americane: Marilynne Robinson. È un uomo ansioso, a volte umorale, ma estremamente generoso: l’ho visto impegnarsi in prima persona per aiutare esordienti e colleghi in difficoltà, e chiunque abbia a cuore il cinema deve essergli riconoscente per il lavoro impagabile che svolge per il restauro dei film. Vive come se fosse un dolore personale il fatto che le pellicole si deteriorino, e questa passione è evidente anche nei poster che arredano la bella casa dell’Upper East Side: sono poche le opere d’arte rispetto ai manifesti, in cui compaiono i film di Hitchcock, infinite versioni della Grande Illusione, e, soprattutto, i classici italiani. 
La generosità diventa dedizione assoluta nei confronti della moglie Helen, una raffinata donna del New England discendente di Edith Warton. È lui a ricordare la parentela, con un pizzico di vanità, ma quello che colpisce, a vederli insieme, è come l’assista da quando la salute di Helen si è profondamente deteriorata. C’è qualcosa di molto commovente nella manifestazione di questo amore, sbocciato in età matura, e si intuisce che l’atteggiamento di tenerezza e dedizione che Martin mostra oggi per proteggerne il fisico è lo stesso che ha avuto in passato Helen nei confronti del suo spirito. Parla raramente delle prime quattro mogli, ma è rimasto legato a Isabella Rossellini, e stravede per le figlie Catherine, Domenica e Francesca, che sembra intenzionata a seguire le orme paterne. Una volta ipotizzò scherzosamente di tornare a insegnare per lei alla New York University, dove ha lasciato un ricordo leggendario, ma per il momento si limita a proiettarle almeno un film ogni weekend, ascoltandone le reazioni: la scelta di realizzare Hugo Cabret nasce proprio da un suggerimento di Francesca. L’attaccamento alla terra d’origine ha qualcosa di viscerale: la sua casa di produzione si è chiamata per anni Cappa, cognome della madre, e ora è diventato Sikelia, nome greco della Sicilia. Una volta mi ha raccontato che quando andò a Salina a trovare Paolo e Vittorio Taviani si commosse profondamente per le chiacchiere degli isolani che sentì nel dormiveglia: «Mi sembrava di essere a Elizabeth Street». Considera i Taviani maestri e fratelli, e l’amore per il cinema italiano continua anche con le nuove generazioni: si è speso in prima persona per Matteo Garrone e Alice Rohrwacher, ma il rapporto più intimo lo ha con Paolo Sorrentino, del quale ammira profondamente il grandissimo talento naturale. L’amicizia si è poi cementata anche grazie alla prelibata cucina di Daniela, moglie di Paolo: Martin ama mangiare bene, e ama ancor più il rito meridionale della tavola. Antepone l’amicizia a ogni altro valore: quando non si occupa di cinema è felice di uscire con pochi amici, a cominciare da Robert De Niro, Jay Cocks e in passato Elia Kazan, a cui ha dedicato uno splendido documentario. C’è stato un momento, alla fine degli settanta, in cui eccessi di ogni tipo ne hanno messo a repentaglio la salute, già provata da una grave forma d’asma. Fu proprio De Niro a salvarlo da dipendenze pericolose, trascinandolo a realizzare Toro Scatenato. Martin evita di parlare di provvidenza, ma quando glielo dici sorride.