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 2019  maggio 19 Domenica calendario

Clima pazzo già al tempo dei romani

A volte gli scrittori hanno antenne profetiche. Anticipano quanto accadrà, oppure entrano in curiosa sintonia con il mondo contemporaneo anche evocando il passato. Addirittura ci stupisce Kyle Harper, docente di lettere classiche all’Università dell’Oklahoma, che scrive di argomenti profondi con grande spessore ma senza annoiare: ha appena pubblicato “Il destino di Roma- clima, epidemie e la fine di un impero” (Einaudi editore, pag.520, euro 34), e analizzando il sottotitolo si sobbalza. Perché si tratta di una teoria contrapposta a quelle di cui discutiamo ogni giorno, cioè le variazioni climatiche che secondo molti, in particolare la predicatrice ecologica Greta Thunberg, impegnata a gridare al mondo che la sua casa è in fiamme (attività che rende molto anche sotto il profilo editoriale), sono soltanto colpa dell’uomo e dell’inquinamento. Invece dal libro di Harper emerge la teoria secondo la quale il globo terracqueo ha sempre vissuto variazioni di clima, con alti e bassi, fra picchi di calore o di gelo. Dal tempo dei dinosauri, per intenderci, e allora di certo l’inquinamento non c’era. Scopriamo, leggendo la pregevole opera di Harper, che la caduta dell’impero romano, e il tracollo dell’Urbe che dominava il mondo allora conosciuto, fu dovuta non soltanto all’invasione dei barbari goti che premevano ai confini, ma anche a fattori e problemi che noi stiamo vivendo e subendo ancora oggi! Roma era una megalopoli, Harper ce la presenta nelle sue dimensioni già nel prologo, settecentomila anime che applaudono all’arrivo del console Stilicone (circa 410 d.c.), giunto dai confini dell’impero, in marcia verso il Foro, il sito sacro dove Cicerone, Catone, Giulio Cesare, avevano sedotto il popolo con le loro arringhe e lanciato le loro carriere politiche. E siamo alla vigilia della fine, cioè la separazione dell’impero fra Oriente e Occidente. Scriveva il poeta Claudiano, di origine egiziana (se fosse vissuto oggi avrebbe vinto a Sanremo?) che «Roma tanto ha esteso il suo potere da sovrapporsi alla luce del sole. Roma ha accolto nel suo seno le genti conquistate, e, da vera madre, non da imperatrice, ha protetto l’umano genere con un nome comune… Con una sola città si è visto farne il mondo stesso». Sì, perché la romanità si era attestata dalla Spagna alla Siria, dall’ Egitto alla Britannia, e a un certo punto l’impero, proprio al culmine dei mille anni era imploso, vittima paradossale del suo stesso sistema, della sua grandezza diventata insostenibile. «Quella stupenda macchina», scrisse lo storico Edward Gibbon «cedette alla pressione del suo stesso peso». Ma altri fattori avevano minato alla base il grandioso sistema che guardava alla città “caput mundi”, come a un faro (scrive ancora il poeta: «una città più grande di ogni altra nell’etere che avvolge la terra, la cui imponenza non può sfuggire ad alcuno sguardo..»). Se sul cedimento del meccanismo imperiale avevano pesato gravi difetti strutturali, guerre civili senza fine, ci furono anche le pressioni sull’apparato fiscale che ci rimanda alle similitudini con i nostri giorni (dateci la flax tax prima che crolli tutto!). Quei picchi del clima avevano favorito agli inizi l’espansione dell’impero con temperature mediterranee, mutate a partire dal II secolo d.C., inclini ad abbassarsi. E anche oggi passiamo di continuo da impennate del termometro a repentine discese. Scrive Harper che i romani si lamentavano perché «d’inverno non c’è più abbondanza di piogge per le sementi, né la primavera è lieta del suo clima, e neppure l’autunno è fecondo di prodotti». E già allora si parlava di senectus mundi, vecchiaia del mondo. I nostri antenati pativano anche le epidemie, peste e vaiolo, che noi abbiamo superato, ma Roma ha ancora enormi problemi di rifiuti. Al culmine dell’espansione, la megalopoli vantava fra l’altro 46602 palazzi, 28 biblioteche, 19 acquedotti, 2 circhi, 290 granai e…144 latrine pubbliche! Ma non bastavano, perché «nell’Urbe ogni giorno si producevano 45 tonnellate di escrementi umani». Impossibile non evocare la prima cittadina che, parole sue, «ogni volta che i romani si affacciano vedono la merda».