il Giornale, 19 maggio 2019
Lunga intervista a Charles Leclerc
Gira Charles, gira. La macchinina rossa è muta mentre lui sdraiato sui gomiti l’accompagna facendo bruum bruum con la bocca. A tre anni la vita è solo bella, tanto bella. E rumorosa. Sul balcone dell’alloggio nel cuore di Monte Carlo la brezza di fine maggio è una carezza mentre quindici metri più sotto il caos mena i suoi schiaffi. C’è odore di benzine estreme, c’è stridore di gomme e freni, c’è l’urlo dei motori aspirati che finiscono nell’imbuto della prima staccata, ci sono le McLaren Mercedes di Mika Hakkinen e David Coulthard che dominano da anni e c’è la Ferrari di Michael Schumacher che prova a conquistare il mondiale. È il Duemila. «Sono a casa di amici dei miei, il condominio dà proprio sulla curva dopo il via, Sainte Devote, credo sia il mio primo ricordo di corse: io che sul balcone vinco con la mia macchinina rossa lanciata sul pavimento mentre sotto...»
Gira Charles, gira. A cinque anni un go kart è come una formula uno. È una freccia, un proiettile, è un missile, un razzo sparato nel cielo dei sogni e della fantasia. La pista di un amico di papà Hervé, a Brignoles, ha preso ora il posto del balcone sopra il Gran premio. Charles gira, gira e quando si ferma basta che si volti un attimo per trovarlo sempre vicino, sempre accanto a lui, prodigo di consigli. «Come sono andato, Jules?» domanda il bimbo al ragazzino di otto anni più grande, figlio del proprietario della pista. Jules Bianchi è paziente, gli assomiglia, hanno legato subito e gli fa da maestro. La vita è ancora e solo tanto bella e Charles e Jules la respirano a pieni polmoni. «E oggi io corro anche per onorarlo, per ricambiare tutto quello che ha fatto per me» sussurra incupito.
Gira Charles, gira. Ora è un’adolescente che va avanti e indietro, su e giù per i saliscendi tortuosi, dentro e fuori i mille tunnel della sua città: Monte Carlo. Gira e gira ogni santo giorno portato dall’autobus diretto a scuola, a Fontvielle, e si domanda «chissà se mai correrò questo Gran premio?». Lungo il tragitto viene sballottolato di qua e di là mentre la mente rimbalza tra il presente dei week end rubati allo studio per correre sui kart e nelle formule minori e il futuro che diventa sempre più nitido. Ormai lo vede scritto sulle vie che percorre ogni mattina, le stesse che a maggio si trasformano in un circuito. Sono trascorsi anni, Schumacher ha finalmente vinto il mondiale con la Rossa; di più, c’è riuscito una, due, cinque volte di fila; Schumacher che poi ha tradito la Rossa; Schumacher che poi è stato tradito dal destino. Intanto, la scuola è ricominciata, è autunno, e la vita all’improvviso non è più solo bella, la vita è diventata terribilmente triste. Jules Bianchi, l’amico, il fratello maggiore, il compagno di mille allenamenti, allievo come sarà poi Charles della Ferrari Driver Academy, durante il Gp del Giappone ha perso il controllo della sua Marussia sul bagnato finendo sotto una gru. Morirà mesi dopo senza aver più ripreso conoscenza. «A lungo ho sperato che si riprendesse...»
Gira Charles, gira. È il 2017, nelle categorie minori ha vinto tutto, la Ferrari gli ha già messo gli occhi addosso, come Jules è entrato nella Academy di Maranello, lui e papà Hervé sognano, poi papà non sogna più. Se lo porta via all’improvviso un male incurabile. Pochi giorni dopo Charles deve correre in F2, in Azerbaigian, a Baku. Ha 19 anni. Ci va da solo, con la disperazione nel cuore e quella scritta sul casco: «Je t’aime papà». Conquista la pole e vince il Gp. A fine anno sarà campione e la F1 gli aprirà le porte. Da brividi la dedica di qualche mese dopo, quando verrà ingaggiato dalla Ferrari: «Alla persona che non è più in questo mondo ma a cui devo tutto... papà. E a Jules, grazie per tutto quello che mi hai insegnato». La vita, adesso, è tante cose, è piena di soddisfazioni, ma non potrà più essere bella come un tempo. «Quelle tragedie mi hanno insegnato molto; per esempio ad apprezzare quel che spesso diamo per scontato» dice oggi deciso, guardandoti dritto negli occhi. Ed è in quel momento che, cruda, gli arriva la domanda.
Charles, la F1 e le corse sono la tua passione, ma la F1 ha portato via Jules, il tuo amico. Cosa pensi della F1?
«Avevo sedici anni quando Jules se n’è andato. Ero terribilmente triste. Però né allora né poi ho mai pensato, neppure per un attimo, di smettere. Mai avuto un dubbio. Perché correre è tutto ciò che faccio e so fare, correre è l’unico obiettivo che ho da quando avevo cinque anni. Una cosa dopo la tragedia è però diventata più chiara in me: il desiderio di dare ancora di più nel cercare di emergere e di riuscirci per onorarlo nel modo che merita, ringraziandolo per tutto ciò che ha fatto per me».
Simili tragedie ti hanno formato come uomo.
«È la famiglia che ti forma. È il suo approccio che definisce in parte il modo in cui sarai come persona. Devo a lei quanto ho fin qui fatto. Nella mia vita ci sono però stati momenti terribili, momenti che non sarebbero dovuti mai esserci, che mi hanno fatto crescere come uomo e come pilota. La morte di Jules e di mio papà. Perdere un genitore così presto ti cambia per sempre. Però sono drammi che mi hanno reso più forte come persona e, in un certo senso, anche come pilota. Me ne rendo conto: oggi so di avere un maggiore controllo mentale».
In ogni momento vincente o felice della tua carriera, non manchi mai di ringraziare papà e Jules. Sei consapevole di mandare un messaggio importante a milioni di tuoi coetanei che seguono la F1?
«No. Però i miei valori sono questi. La famiglia viene prima di tutto, anche di tutto ciò che ho qui intorno adesso. Purtroppo l’ho capito quando ho perso papà e Jules. Perché quando la vita va solo bene ogni cosa è diversa, le corse, la passione ti assorbono completamente e finisci con il perdere il contatto con i tuoi cari. Invece non deve succedere. Questo mi ha insegnato la vita; e se oggi posso condividere questi valori con altri giovani, aiutandoli a realizzare e capire tutto prima, sono felice».
Parli di valori, hai un viso d’angelo e modi gentili, ma guidi come un demone, aggredendo e prendendo rischi. Chi sei veramente?
«Né angelo né demone. Cambio completamente nel momento in cui entro nell’abitacolo. Lì deve venire fuori il killer instinct che rende aggressivi e porta a spingere spingere spingere per arrivare al limite e dare sempre il massimo. Questo sono io in auto. Fuori? Sono normale».
Nella vita di tutti i giorni?
«Più angelo, sì. Amo la gentilezza, non sopporto la maleducazione».
Stefania, la madre di Valentino Rossi, tempo fa, disse: «Sono fiera dei miei figli piloti da fine novembre a fine febbraio, quando il campionato è fermo. Poi ho solo paura...».
«Anche mia mamma, di sicuro. È sempre difficile per un genitore guardare le gare del figlio. C’è adrenalina ovunque mentre noi, in auto, non pensiamo mai al pericolo. Però è vero: ti confido che anche io provo le stesse sensazioni di mia madre quando corre Arthur, mio fratello più giovane. Sono preoccupato, a volte mi spavento».
Come concili il tuo killer instinct con gli ordini di scuderia che hai ricevuto più volte in questo campionato?
«All’inizio è stato davvero frustrante. Ma in F1 non dipende tutto da una persona, c’è un intero team dietro di te. Per cui se posso aiutare, lo faccio e lo farò. Ma voglio anche vincere tanto. Ecco perché a volte, alla prima opportunità, è utile mostrare il proprio carattere. Comunque, fin qui gli ordini sono stati accettabili. E poi dipende da me fare il possibile per stare davanti...»
Domenica c’è già Monte Carlo. Si corre a casa tua. Accetterai ordini?
«Vediamo cosa succede, come si svilupperà la gara. Gli ordini dipendono anche dalle strategie, chi ha una sosta da fare, chi due... Comunque, è la mia corsa, è dove sono nato, è speciale. Però cercherò di affrontare l’intero week end nel modo più normale possibile. È una delle mie piste preferite, ma l’anno scorso non mi andò bene...»
Charles, fortuna e sfortuna. Ci credi?
«Non mi piace credere nella sfortuna, anche se a volte accadono cose che non è in tuo potere cambiare. In gara ho però imparato a dimenticare: come in Bahrein, la mia prima vittoria ormai in pugno sfuggita all’ultimo per un guasto. Un’ora dopo non ci pensavo più».
I giovani tifosi guardano a te come a un loro nuovo eroe, i vecchi dicono che ricordi Gilles Villeneuve. Fra questi anche Bernie Ecclestone, che di piloti ci capisce.
«È un grande onore un simile paragone. Però io sono concentrato nel restare me stesso. Davanti a media e tifosi c’è chi è timido, chi cerca di sembrare qualcun altro. Ecco, io invece voglio mostrare, fin dove mi è possibile, che tipo di persona sono davvero. E se così facendo mi amano, allora è bellissimo».
Come dopo l’errore di Baku in qualifica, quando hai detto via radio sorry, sono stato uno stupido?
«Sì, proprio così. Preferisco comportarmi in questo modo. Amo essere onesto con me stesso, e non cercare scuse. Quando sbaglio, come a Baku, guardo all’intera situazione. Lo stesso errore in Q3 sarebbe stato differente. In Q2 non avevo bisogno di spingere così tanto perché sapevo di avere l’auto per passare in Q3; se avessi sbattuto in Q3, cercando la prestazione limite, mi sarei arrabbiato di meno. S’impara, si fa esperienza anche così. Ecco che cosa ho appreso quel giorno. E ammettere l’errore aiuta a correggersi e migliorarsi più velocemente».
Quando hai pensato per la prima volta «ok, sono un pilota speciale»?
«Mai. E non mi piace pensare cose simili. L’unico metro che ho sempre utilizzato per valutarmi è sentire dentro di aver fatto un buon lavoro. Guardo sempre avanti; specialmente in F1, dove in ogni week end devi dare il massimo e sapere in quale area migliorarti per essere il più forte in pista. E poi non ho tempo di voltarmi indietro per dirmi ok, sei speciale per questo o per quello. Semmai, guardo indietro per dirmi ecco, potresti migliorati in questo o in quello...».
Quale Charles ami e quale odi?
«Amo quello onesto e franco con se stesso. Mi piace davvero. Molti altri non fanno così. Quanto a ciò che non sopporto di me, forse qualche volta dovrei essere più positivo, tendo spesso a guardare solo agli aspetti negativi».
A proposito di questi, non è che la Ferrari stia andando bene. Cinque doppiette Mercedes, Rossa grigia e lontana in Spagna.
«Sì, a Montmelò speravamo di ottenere di più. Avevamo portato diversi aggiornamenti. Alla fine è stato tutto un week end difficile. Comunque nei test abbiamo raccolto dati utili per comprendere meglio la monoposto. Stiamo lavorando al massimo».
La F1 cambia la gente, fa vivere a mille all’ora.
«Certo, tutti ti riconoscono, ti fermano. So che questo può cambiare le persone, so che cambia altri, non cambia me, però. Io resto me stesso».
Sicuro? Come fai?
«È importante circondarsi della gente giusta. Io ho sempre le stesse persone da anni. Il mio gruppo di amici d’infanzia, il mio fisioterapista. Devono essere persone sincere, che si accorgano non appena inizi a prendere la direzione sbagliata e te lo dicano. E per ora non mi hanno detto nulla, per cui....
E adesso che sei alla Ferrari, nella chiesa Ferrari, dove la pressione è sempre al massimo?
«Aver firmato per la Rossa è qualcosa di speciale, sono fortunato. Però quando sono arrivato mi sono detto: Charles, ci sarà più interesse verso di te, ti faranno più domande, ma il tuo obiettivo resta lo stesso che avevi in tutti gli altri team: dare il meglio quando guidi. Per cui, sinceramente, non ho avvertito pressione in più».
La Ferrari di Schumi, Raikkonen, Massa, Alonso, Vettel. Ora ci sei tu ventenne. E si stanno avvicinando alla Rossa tanti giovani appassionati che prima seguivano meno le corse.
«Ma no, la Ferrari ha la stessa immagine, quella del team da sempre in F1, il più prestigioso. Però mi piace l’idea che si avvicinino dei giovani».
E tu e Vettel? La pressione di guidare accanto a un quattro volte campione del mondo?
«No, non ho mai pensato a questo. Piuttosto, ci ho visto una grande opportunità per la mia carriera: perché ogni volta che guidi a fianco di un simile pilota e fai un buon lavoro, allora mostri davvero le tue potenzialità».
Dopo cinque gare, un po’ di ordini di scuderia e qualche sorpasso in pista il rapporto fra voi come va?
«Ovvio, ognuno vuole battere l’altro, ma siamo riusciti a trovare l’intesa per lavorare bene insieme. Quanto alle gerarchie interne, ovviamente la prima vittoria sarà importante, ma penso che contino ancora di più le prestazioni avute gara dopo gara».
Tu usi il mental coach?
«Sì».
Utile?
«Molto»
Lo usi da anni?
«Sì».
Per cui, visto che ne hai solo 21, l’hai usato anche a scuola, per rendere di più.
«No, no, no. Purtroppo per niente. Il mental coach ti insegna a gestire le energie durante il week end di gara... Però, a pensarci, sai che forse un po’ mi ha aiutato anche a scuola. Non amavo studiare, ma prendevo bei voti».