il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2019
Biografia di Gigio Alberti raccontata da lui stesso
Arriva in anticipo e quasi si scusa, poi si siede a un tavolino del foyer del Quirino di Roma, dove è in scena, e dopo appena cinque minuti estrae dal pacchetto una sigaretta. Non l’accende. Ci gioca con le mani per stemperare una nota di disagio (“mi sento sempre in discussione”) e non si appella mai a una pausa per una salvifica boccata di nicotina. Aspetta. Passano tre quarti d’ora, una fan lo riconosce, chiede un autografo vecchio stile, oramai solo selfie, e Gigio Alberti è misurato pure rispetto alla firma: piccola, anzi piccolissima, grafia asciutta, e di lato alla locandina pubblicitaria del suo Regalo di Natale. “La verità è che sono un attore per caso, oggi è la mia vita, il mio mondo, eppure ho iniziato tardi e neanche ci pensavo”.
Capelli bianchi racchiusi in una cipolla, barba lunga, non curata, maglione a pelle, sorriso vero, sembra un ragazzo nel ruolo di un adulto; uno in grado di stupirsi, più di voler stupire.
“Ma davvero l’intervista è su due pagine?”.
Sì.
Non credo di valerle.
È preoccupato?
Quando mi rileggo ogni volta penso: “Ma le ho dette io queste frasi?”.
Frainteso.
No, il problema è che penso una cosa, nel frattempo ne associo una differente, e poi quando ne dici una ne escludi un’altra.
Dubbi.
Sono così, in tutto.
Diego Abatantuono sostiene che nella sua vita non ha mai litigato.
Che stronzo (è immediato, d’istinto, con il mezzo sorriso).
Perché?
È vero. Anche l’altro ieri Filippo Dini (in compagnia con lui) mi ha chiesto stupito, come se guardasse uno zombie: “Non discuti mai con nessuno?”.
Risposta.
Litigare per me è un sacrificio umano, per riuscirci devono portarmi all’esasperazione, e quando sono lì lì per sbottare penso che anche l’altro ha le sue ragioni solo che in quel momento non le vedo.
Atteggiamento innato o dato dall’esperienza?
Eh magari, mica sono contento; non incazzarsi vuol dire non buttare fuori nulla, non alleggerirsi, mentre io mi tengo tutto dentro, e ogni volta sono costretto a digerire il mio fiele. (Ci pensa, alla fine si illumina). Però in alcuni, rari casi, ci sono riuscito.
E…
Grande soddisfazione, e dopo ho pensato: “Lo vedi che scemo scemo non lo sei? Alla fine ci riesci!”
Però “che stronzo”.
Ne soffro, davvero.
Uno schiaffo, mai?
Non credo, ho solo avvertito la forte sensazione, ma niente atto pratico.
Neanche nella sua Milano di fine anni Settanta?
Lì sono capitato in mezzo a risse politiche, e ne prendevo un po’, poi cercavo di darle, il problema è che prima ne riscuotevo comunque una fracassa.
È pure molto alto, la si nota.
La mia arte è sempre stata quella di sgattaiolare, mai stato uno da prima fila. Mi aggregavo.
Politicamente impegnato.
Anche lì, in seconda fila: mi occupavo dei volantini, il ciclostile, andavo a prendere la carta dal magazzino; non l’uomo che si alza in assemblea ed esalta la folla.
Però rimorchiava.
Neanche!
Paolo Rossi racconta spesso del debutto teatrale “con il mio vecchio amico Gigio”.
È più vecchio lui.
Però avete iniziato insieme.
Senza guadagnare nulla; lui era il motore e portavamo in scena poesie di Prévert riscritte da Paolo stesso; intorno a noi un gruppo di persone variopinto: definirci compagnia oggi può sembrare blasfemo.
Addirittura?
Al nostro fianco un amico di Paolo, uno psichiatra, si offrì di risolvere il cruccio della vendita dei biglietti: “Ho uno dei miei ragazzi disponibili, ci pensa lui, li porta tra gli studenti delle superiori”.
Perfetto.
Dopo qualche giorno questo tipo scompare, non era mai entrato in un liceo, non aveva piazzato neanche un biglietto; tempo dopo confessò: “Mi vergognavo troppo”.
Flop.
Ci siamo arrangiati con amici e parenti.
Di cosa viveva?
Ancora a casa con i miei, più alcuni lavoretti, come controllare i prezzi dentro i supermercati.
Dentro di lei un sogno d’attore.
Non me ne fregava niente.
Chi voleva diventare?
Mica lo sapevo, non avevo le idee chiare, e neanche da studente: in tre mesi avevo traslocato dalla facoltà di Agraria a quella di Lettere.
Apatico.
Fino a quando sono passato in Corso Ventidue Marzo a Milano, e ho visto il manifesto di una scuola di mimo: “Bah, proviamoci”, penso. Lì ho incontrato Paolo Rossi.
Paolo Rossi allora.
Divertente, uno che ti coinvolgeva; insieme eravamo l’articolo “Il”, io più alto della media, lui più basso della media.
Fisionomicamente divertenti.
Un paio di spettacoli insieme, ma non ero estroverso, prima di salire sul palco mi riempivo di whisky in quantità industriali, fino a non capire neanche dov’ero.
Ogni volta il whisky?
Sono andato avanti così per diversi anni.
Si è mai preoccupato?
Io no, forse gli altri; lo reggevo bene, il problema era quando andavo in scena tutti i giorni: la sera spettacolo, poi tornavo a casa stordito come pochi; mi riprendevo e alle cinque del pomeriggio arrivava l’altra botta per tornare in scena.
Giusto perché era giovane.
Questa pratica è terminata nel momento in cui mi hanno coinvolto in uno spettacolo molto lungo, dovevo parlare tantissimo e stare in scena altrettanto: il whisky non era più praticabile, dovevo cercare un altro escamotage.
Una canna.
No, quelle le uso solo per studiare.
Ancora oggi?
A volte mi serve, mi aiutano a concentrarmi, vedo meglio i particolari della scena, ci entro più facilmente.
Insomma, quando le è entrato dentro il teatro?
Un giorno Paolo mi dice: “Andiamo alla Paolo Grassi, c’è una scuola di mimo gratis e senza selezione”. E io: “Mi sembra strano, fa parte del Piccolo”. “Tranquillo”. Ovviamente era una delle sue fregature.
Ovviamente.
La selezione c’era, e lui da bravo improvvisatore c’è riuscito. Io zero. Cacciato.
Però…
Quando ho un osso in bocca non lo mollo facilmente, e questo è un bene e un male, perché rischi di buttare via molto tempo e per nulla; l’anno dopo ci ho riprovato.
Ed è andata…
Sì, ma nella mia testa l’obiettivo era diventare un mimo non un attore; volevo evitare il teatro borghese, di parola, mi annoiava, preferivo l’interpretazione fisica.
Il lei di allora come giudicherebbe il lei di oggi?
Me lo domando, e non lo so; a volte ho il dubbio di essere finito dentro ciò che odiavo, ma credo di no, perché non ho mai portato in scena dei classici, mi fanno un po’ paura (dopo un decaffeinato, e con la sigaretta sempre in mano, inizia a sfogare l’ansia sulle patatine fritte).
I suoi cosa le dicevano?
Per fortuna niente, sono dei santi; però non erano felici, sicuro pensavano “ma dove va questo? Non è il tipo, che cazzo si è messo in testa?”. Poi, all’arrivo dei primi risultati, si sono un po’ tranquillizzati, ma quello del teatro resta un lavoro precario.
Meglio il cinema.
Per le mie insicurezze ho bisogno di riscontri immediati, di conferme, e possono arrivare solo dal palco.
Come si giudica da attore?
Uno bravo, utile agli spettacoli. E per fortuna spesso ho lavorato con gli amici.
Secondo Salvatores il film “Marrakech Express” ha creato un gruppo.
Perché è stato girato in sequenza, tutto il tempo insieme, più di un mese vissuto come una gita scolastica, con le classiche dinamiche d’insieme, discussioni, incroci, chi sta con chi, chi evita chi, chi ricompone. Microcosmi. E al momento dei saluti scatta la malinconia, torni a casa e sei solo; la solitudine è una brutta compagna.
Non si è mai sposato.
Se tornassi indietro forse cercherei di vivere certe situazioni con maggiore serietà.
È considerato un sex symbol.
Questa è una sòla che ogni tanto mi tirano: non ci ho mai creduto né mi ci sono mai sentito.
Mai.
Dipende dall’infanzia che hai vissuto: la mia è stata da rospo, e quella mi è rimasta attaccata.
Non le sono saltate addosso.
Ogni tanto sento: “Sei stato l’uomo dei miei sogni!”. E io: “Potevi dirmelo”. Sì, quel ruolo proprio non lo riconosco. Peccato.
“Casa c’è di bello nel crescere?”, lo ha dichiarato dieci anni fa.
Continuo a pensarlo. In realtà, pian pianino, certe ansie si sono smussate, come le inquietudini, quindi qualche aspetto positivo c’è.
Gioca ancora a pallone?
Mi piacerebbe, guardo i campi con l’occhio di chi ha in mano la fotografia di un vecchio amore. Durante le riprese di Mediterraneo la partitella era una costante, ma anche nei primi spettacoli teatrali con Antonio Catania, Claudio Bisio, Silvio Orlando, Gianni Palladino, Bebo Storti, Renato Sarti…
Una formazione.
In giro con un pulmino, attraversavamo i paesi, e quando vedevamo un campo di calcio inchiodavamo e scattava la sfida.
Il più scarso?
Silvio Orlando; almeno in quello non era un granché.
Claudio Bisio.
Non un grande giocatore, però ha una tigna incredibile, arriva a tutto: se gli dai un pezzo di legno, può diventare falegname.
Non molla.
È la sua forza, non si arrende a nulla; all’inizio faceva ridere per esasperazione, e ancora oggi utilizza lo stesso meccanismo.
Lo spieghi.
Dice una cosa, e magari non funziona, e allora va sopra con un’altra più forte, e non funziona ancora, così raddoppia, triplica, fino a quando uno non cede, si arrende, e ride.
Tra Bisio e Abatantuono sarà stata una lotta.
Diego è più secco, ha la battuta tagliente, Claudio è una ruota che gira in continuazione.
Lei e il cabaret…
Ci ho provato e per cinque volte: un disastro. Iniziavo con la gente che rideva, finivo che erano semi afflosciati sulle poltrone.
Cosa non ha funzionato?
In quei momenti il pubblico te lo devi mangiare, e non ho mai avuto una tale aggressività.
Lei è famoso ma non famosissimo.
Sì, non sono una rockstar, ma va bene così, se devo scegliere un ruolo preferisco quello di Richelieu, manovrare da dietro, esserci, senza apparire troppo; per essere un frontman è necessario un grado di sfrontatezza che non mi appartiene; sono troppo ondivago.
Quindi non le interessa un ruolo da protagonista nel cinema?
Quello sì, mi sarebbe piaciuto, ma non so come avrei affrontato la tensione. (Ci ripensa). Non sono maturato completamente, magari ci arrivo.
Quando non lavora, cosa fa?
Me lo domando anche io; ogni volta che riprendo in mano un copione, penso: “Ho passato tre mesi senza fare niente”. Davvero, non lo so, e ci casco sempre.
Un suo mito da ragazzo.
Eh, complicato.
Uno.
Da grande avevo Sonia Braga, era l’epoca da militare.
Militare?
Solo al mattino, sono riuscito a passare per pazzo, e imboscato all’ospedale militare: traducevo articoli sulla droga.
Qualcuno volò sul nido…
Per risultare credibile mi sono rasato i capelli a zero, preso ogni tipo di pasticca per ottenere il tremore giusto e ripetevo: “Non ce la faccio, non ce la faccio, non ce la faccio”.
Credibile.
Ero talmente entrato nella parte da intenerire un ragazzo di Caltanissetta, mi diceva: “Dai Gigggio, vieni a mangiare qualcosa”. Mi sentivo quasi in colpa.
Definizione di Gigio Alberti.
Un osso.
Perché?
È un nucleo, e resistente.