Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2019
Biografia di Francesco Federico Cerruti
A vederla così parrebbe una delle tante (e un po’ anonime) ville della borghesia torinese, sorte sulla collina di Rivoli tra gli anni ’60 e ’70 alle spalle della Manica Lunga del Castello sabaudo. Ma non bisogna lasciarsi ingannare: nessuno può immaginare quali meraviglie si celino dentro questa casa. Stiamo parlando di Villa Cerruti, che l’imprenditore e collezionista torinese Francesco Federico Cerruti (1922-2015) eresse a fine anni ’60 per conservare spettacolarmente allestite le sue straordinarie collezioni d’arte, composte di dipinti, disegni, sculture, mobili, arredi, libri antichi e legature di pregio. Un autentico “tesoro nascosto”, noto solo a pochissimi, e riunito in cinquant’anni di collezionismo lento, appassionato e appartato.
Prima della scomparsa, l’imprenditore volle legare questa villa alla «Fondazione Francesco Federico Cerruti per l’Arte». E ora, grazie a un importante accordo di gestione siglato con il Castello di Rivoli (diretto da Carolyn Christov-Bakargiev), la casa-museo che sorge a pochi centinaia di metri dalla Manica Lunga è stata finalmente aperta al pubblico e collegata al Castello con un servizio di navette.
Per apprezzare questa collezione bisogna innanzitutto familiarizzare con il suo singolare proprietario. Francesco Federico Cerruti era figlio di un modesto legatore di libri che, trasferitosi da Genova a Torino, aveva aperto un’attività in proprio, la LIT (Legatoria Industriale Torinese). L’azienda aveva ottenuto nel 1934 un’importante commessa: la rilegatura dei primi elenchi telefonici italiani. Fu il suo decollo. Lavoro duro e vita sobria – valori condivisi da tutti i componenti della famiglia, papà Giuseppe, mamma Ines e sorella Andreina – portarono la LIT a prosperare. Così, il giovane Francesco Federico potè studiare e nel 1940 conseguì il diploma in ragioneria, iscrivendosi subito dopo alla facoltà di economia e commercio. Ma la guerra sconvolse i piani: nel luglio 1943 la ditta paterna si sbriciolò sotto i bombardamenti alleati di Torino. Fu necessario rimboccarsi le maniche: il “ragioniere” (così Cerruti si farà chiamare per tutta la vita) lasciò perdere l’università e si prodigò nella ricostruzione della LIT, concentrandosi sull’innovazione e introducendo macchinari e sistemi di robotizzazione in grado di industrializzare i processi di legatoria e di portare l’azienda a una capacità di produzione di quasi 200mila volumi al giorno.
L’imponente successo imprenditoriale, tuttavia, non mutò il carattere austero e le abitudini frugali del principale: Francesco Federico Cerruti rimase sempre un uomo schivo e riservato, non si sposò e fu profondamente legato alla famiglia d’origine, in particolare alla sorella Andreina, oggi presidente della Fondazione. Scelse sostanzialmente di vivere nell’ombra, circondandosi di pochissimi e selezionati amici coi quali condivideva rari pranzi e un divorante “segreto”: la passione per l’arte.
A partire dal 1969 (anno in cui acquistò presso una galleria ginevrina la sua prima opera, un piccolo acquerello di Kandinskij) e fino al 2014 (anno dell’ultimo acquisto da Sotheby’s della Jeune fille aux rose di Renoir), il ragioniere agì tenacemente defilato, acquistando un numero eccezionale di opere d’arte in asta o presso gallerie e antiquari torinesi (Bussola, Galatea, Accorsi, Ometto). Arrivò a possedere grossomodo 300 tra dipinti e sculture (dalla fine del Medioevo all’età contemporanea), 200 libri d’altissima qualità con legature di pregio, 300 arredi da museo. Ai quali s’aggiunsero un pianoforte Steinway e un set di bicchieri appartenuti allo Zar di Russia. Cerruti non pose limiti al carattere tipologico, cronologico e geografico della raccolta ma stabilì un unico requisito: l’assoluta eccellenza qualitativa delle singole opere. E a tale vincolo – con rigore – s’attenne.
La villa, che l’industriale aveva fatto costruire sulla collina di Rivoli per destinarla alla vecchiaia dei genitori (che però non vi misero piede), si trovò a diventare di fatto il suo buen retiro domenicale. Cerruti veniva qui in giornata (si favoleggia che non vi dormì mai), per rilassarsi, stare in giardino e pranzare con amici intimi; ma soprattutto per godersi la mirabolante collezione d’arte cresciuta progressivamente nel tempo fino a saturare i quattro piani dell’immobile.
Chi entra deve sapere che tutto è rimasto intatto, ovvero allestito nella veste sontuosamente “all’antica” voluta da Cerruti negli Anni Ottanta, con la regia dell’antiquario Giulio Ometto. I visitatori (accompagnati e contingentati) partono dallo Studio al pian terreno, dove tra specchi e boiserie ammirano quadri di Tanzio da Varallo, incisioni di Rembrandt e Picasso, mobili di Piffetti e Galletti, e libri rinascimentali sontuosamente miniati e rilegati. La Sala della Musica conserva alle pareti capolavori di Dosso Dossi, Pontormo e Paris Bordon, mentre sul coperchio del pianoforte campeggiano statue di Giacometti, Manzù e Medardo Rosso. Lo Scalone è da capogiro: alle pareti, una accanto all’altra, si assiepano opere di Modigliani, Mirò, Boccioni, Casorati, Bacon, Léger e Picasso. Si stenta a crederlo.
Non è finita: se un Paul Cézanne arreda l’Ingresso del primo piano, un’infilata di ben otto Giorgio De Chirico (da manuale!) campeggiano sulle pareti a specchio della Sala da Pranzo, acquistati su consiglio e intermediazione dell’amico e storico dell’arte Maurizio Fagiolo Dell’Arco.
In un’Anticamera troviamo Balla, Savinio e Klee; nella Camera della Madre si palesano invece Magritte, Chagall, Ernst, Sironi e Schiele. Il letto è attribuito al Bonzanigo e la Madonna sopra la testata è opera di Marco d’Oggiono, uno dei seguaci milanesi di Leonardo da Vinci. Nella vicina Camera delle Rose (il nome è dato dai disegni floreali della tappezzeria provenzale) ci sono numerosi Morandi assieme a un Fra Galgario e a un Bernardo Strozzi. Qui, si trova anche il mobile più prezioso della raccolta: la rarissima e magnifica scrivania con scansia (detta «Ashburton Cabinet» del 1770) modellata e intarsiata da Pietro Piffetti, il principe degli ebanisti piemontesi.
Il Salone rettangolare, in stile Luigi XVI, è arredato con raffinati mobili francesi, e alle pareti s’alternano un polittico di Agnolo Gaddi (1388 circa) e tele di Domenichino e Pellizza da Volpedo. Notevoli sono anche la scultura di Giovanni Antonio Amadeo (Lombardia, primo Cinquecento) e il fastoso tappeto ottomano (Egitto, secondo Cinquecento). L’attiguo Salone circolare - anch’esso in stile Luigi XVI – si distingue per le due grandi tele di Pompeo Batoni che circondano una squisita tavola del pittore rinascimentale bolognese Francesco Francia (1505). La Camera della Torre al secondo piano è incredibilmente satura di fondi oro medievali e quadri rinascimentali (ci sono ben tre Bergognone). Ma non vanno dimenticati i vani seminterrati, con la Sala dell’Ottocento (Boldini, Fattori, Signorini, Morbelli, Lega, eccetera), la Sala del Fontana (con il meraviglioso taglio rosso del 1965), il Corridoio (con Andy Warhol) e la Sala da Biliardo, dove le pareti ospitano capolavori di Casorati, De Pisis, Campigli, Vedova, Manzoni, Licini e Burri. Domanda: il severo ragionier Cerruti giocava a biliardo? Ma nemmeno per sogno. Il grande biliardo gli serviva solo per appoggiare aperti e bene in vista i pezzi più belli della sezione dei libri antichi e delle legature d’epoca. Nel vedere il biliardo così allestito, quest’antico “legatore” di professione doveva – nel suo intimo – gongolare di vera gioia.