Tuttolibri, 18 maggio 2019
Intervista ad Andrés Neuman
L’undici marzo del 2011 Andrés Neuman da un appartamento di Parigi osserva in tv il disastro del terremoto e dello tsunami in Giappone, «il fascino e l’orrore di quella tragedia mi hanno sconvolto». Il Paese teatro dell’orrore nucleare, tornava a veder la propria esistenza minacciata da una centrale atomica. Quella mattina, Neuman, si è reso conto di essere uno straniero: «Io, nato in Argentina, cresciuto in Spagna, stavo vedendo quelle scene del Giappone, mentre trascorrevo una parte di vita in Francia». L’identità ne esce necessariamente modificata. Meglio così. Quei quattro luoghi, non può essere un caso, fanno da sfondo a Frattura, l’ultimo romanzo di questo scrittore e poeta che non lascia mai indifferenti.
Il protagonista, il signor Watanabe (un nome molto comune di Giappone, coincide con quello di José, poeta peruviano) è un doppio sopravvissuto: è scampato alla bomba atomica di Hiroshima, con la famiglia a Nagasaki, ed è protagonista del terremoto del 2011, a cui è seguito lo tsunami e l’incidente nucleare di Fukushima.
A raccontare la sua vicenda sono quattro donne, conosciute in città e tempi diversi: la Parigi della Nouvelle Vague, la New York del Watergate, a Buenos Aires dopo la fine della dittatura, e a Madrid durante la rinascita spagnola dei primi anni ’90. Una storia di rotture, con un simbolo ricorrente, il Kintsugi, «l’arte ancestrale giapponese di riparare oggetti rotti con dei fili d’oro che saldano le parti ricomposte».
Cosa rappresentano queste cicatrici d’oro?
«Il Kintsugi è un modo di celebrare una rottura e di ricomporre le cose senza dissimulare il trauma. Anzi, in Giappone gli oggetti rotti e riparati con il Kintsugi valgono più di quelli originali».
Una metafora?
«Sì, è la mia forma di raccontare il Paese e le persone. Una metafora collettiva. Watanabe, il protagonista, porta i segni delle fratture e così i Paesi dove va a vivere. Oltre ovviamente al suo».
Il romanzo si apre con una frattura gigantesca: il terremoto.
«Si apre letteralmente il terreno. Da lì in poi si rompe tutto, gli Stati, le famiglie, le persone. Ma quello che più mi interessa non è tanto la frattura, ma quello che resta dopo. Non mi interessa la morte, ma ciò che viene dopo, il lutto. Mia madre mi ha raccontato che da bambino, quando mi regalavano un gioco, io lo rompevo per vedere cosa ci fosse dentro. Lo facevo senza rabbia, per poi ricomporlo. Mi dispiaceva molto quando non ci riuscivo. Il libro insomma, nasce da un’ossessione di bambino».
Cos’è per lei il Giappone?
«Non è solo un luogo che affascina i lettori, ma un posto dove la distanza culturale ci crea un problema di traduzione. Lì siamo costretti a fare i conti con la nostra identità, con le frontiere, siamo obbligati a varcarle. La paura, il “lost in traslation” diventa un’opportunità».
Il suo Watanabe, ovunque vada, è sempre uno straniero?
«Certo, ogni volta che cambia città vive la fantasia di essere un’altra persona, a secondo della donna che racconta la sua storia o della città dove sta vivendo. Quando andiamo in un posto nuovo, lontano da casa, c’è quel misto di vertigine e senso di libertà che ci fa pensare: qui nessuno mi conosce e posso essere qualsiasi cosa. Si possono vivere più vite».
C’è qualcosa di autobiografico?
«Sì, sono figlio di esiliati argentini e non potrei mai scegliere tra le due identità, quella latino americana e quella spagnola, europea. Quando vado in Argentina mi chiedono dell’Europa e qui mi si considera argentino».
Queste vite le racconta attraverso quattro storie d’amore.
«Non volevo solo raccontate quattro storie d’amore, ma quattro età diverse, quella dell’esplorazione sessuale (Parigi), la prima stabilità (New York), la maturità, quando si va a dormire in un letto dove altri prima di te hanno dormito (Buenos Aires) e l’amore nell’età della pensione (Madrid)».
Esiste l’amore da vecchi?
«L’ho visto nella mia famiglia. Mio padre è rimasto vedovo molti anni fa ed escludeva che ci sarebbe stata un’altra donna nella sua vita. Poi all’improvviso ha conosciuto una persona della sua età, vedova anche lei. Ora è tutto felice. Mi sono ispirato a lui».
Nel romanzo lei ha utilizzato a lungo la prima persona femminile, si è trovato a suo agio?
«Non è stata una cosa comoda, ma sicuramente fertile. Il patriarcato ha sempre parlato di donne, ma non dal loro punto di vista. Nel mio romanzo precedente ci avevo provato e molti lettori e soprattutto lettrici avevano apprezzato».
Cosa pensa di questa fase del femminismo?
«Sono sposato con una professoressa femminista ed è un tema con il quale mi confronto spesso. Il femminismo è entrato nella fase della maturità, ha allargato il campo d’azione: non soltanto le storiche rivendicazioni dei diritti (aborto, parità, lotta alla violenza), ma la volontà di applicare i propri principi a tutti gli ambiti della vita. Rebecca Solnit, nel suo “La madre di tutte le domande”, dice due cose: non bisogna distinguere tra donne e uomini, ma tra persone educate con consapevolezza di genere o meno. Poi aggiunge che la fiction è il miglior veicolo per trascendere i generi e le categorie, la letteratura è transessuale per natura. Un giovane può diventare un vecchio, una donna un uomo».
Cosa resta del maschilismo?
«Ci siamo abituati al fatto che i maschi parlino di questioni universali e le donne discutano di donne. Dante scrive dell’umanità e Virginia Woolf di donne. È un sottile maschilismo. Se Borges può rappresentare una lettrice perché io, maschio, non posso essere rappresentato e raccontato da una donna?».
La letteratura argentina lo ha dimostrato: se c’è qualcosa che unisce i popoli è il calcio con il suo linguaggio universale. Lei che è un grande appassionato se ne è servito per integrarsi?
«Io ho vissuto una storia diversa. Quando sono arrivato in Spagna il posto dove più mi sono sentito uno straniero è proprio un campo di calcio. Le regole erano le stesse, certo, ma io giocavo in un’altra maniera rispetto agli europei. Quella latinoamericana è una cultura che crede nei caudillos e pretende il miracolo. Una filosofia che non ha niente a che vedere con quella che ho trovato qui, come il Barcellona di Guardiola, dove al centro di un meccanismo perfetto c’è il collettivo».
Però poi c’è Messi.
«Messi è un genio, con una magia che arriva da un luogo sconosciuto, un narratore onnisciente, ma ha una caratteristica: rende migliori i suoi compagni».
Meglio di Cristiano Ronaldo?
«Cristiano è il simbolo del self made man del capitalismo e lo dico con il massimo rispetto. È il trionfo dello sforzo, della disciplina, del narcisismo. Ma non fa grandi i suoi compagni».
L’argentino Bergoglio ha detto: Messi è un grande ma non è dio. Ha ragione?
«Non so, ma certo che è un miracolo vedere i filmati di un bambino praticamente nano e malato che faceva le stesse cose di oggi. Guardate quei video e ditemi che non è un miracolo».