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 2019  maggio 18 Sabato calendario

Moravia segreto

A quindici anni, Alberto Moravia scriveva poesie (se ne conservano cinque del 1923 e altre successive spedite ad Amelia Rosselli, sua zia, per chiedere un parere). Erano in italiano e in francese, nacquero in parte almeno nel sanatorio di Cortina d’Ampezzo, ai tempi della lunga reclusione che caratterizzò la sua adolescenza. Le definiva «poesiucole», erano versi di sofferenza, baluginanti di visioni, che sono stati peraltro pubblicati. Quel che non si sapeva era però che alla poesia tornò, quasi segretamente, nell’età matura. Fra le carte è rimasto un dattiloscritto preparato come fosse destinato all’editore, quasi il diario di «un uomo nudo», come lo definisce la vedova Carmen Llera che ne ha deciso la pubblicazione.
Ora esce per Bompiani, col semplice titolo Poesie; 83 componimenti scritti prima a mano, corretti, dattilografati, corretti ancora, a testimonianza di un lavoro che va oltre l’appunto intimo o sentimentale, ma che può – anche se lo scrittore non sembra averne mai fatto parola: ne dà notizia solo Enzo Siciliano nel ‘76 – diventare un libro; e nascono in un periodo storico, intorno alla metà degli Anni Settanta, in cui Moravia è impegnatissimo. Viaggia molto, la sua fama ha raggiunto l’apice ma nello stesso tempo è al centro di polemiche, a partire da quel ’68 in cui si è sentito attaccato, processato e forse irriso, e nei cui confronti ha un atteggiamento ambivalente. La sua stessa vita privata affronterà svolte importanti, sia dal punto di vista sentimentale (dopo la lunga relazione con Dacia Maraini, si aprirà quella durata fino alla morte con Carmen Llera) sia da quello culturale ed esistenziale: il ’75, oltre ad essere l’anno del Nobel all’amico Montale, è anche quello della morte di Pasolini, per lui un fratello.
È un tempo di introspezione, segreta o almeno borghesemente riservata. Moravia scrive per se stesso e contemporaneamente lo fa come se già pensasse al lettore. «Per mezzo secolo/ ho scritto/ con successo/ prosa/ di romanzo/ e la vita/ mi pareva/ ricca e piena/ appena/ ho scritto/ poesia/ la vita/ mi è sembrata/ povera/ e vuota» enuncia, quasi programmaticamente come per invocazione alla Musa (o nel caso la ninfa gentile della melanconia), il primo testo del libro: a testimonianza che siamo di fronte a un’opera non frammentaria ma strutturata, e una consapevole scelta linguistica e di stile. Non è un Moravia ingenuo e «inesperto» quello che sta quasi perseguendo una sorta di insista a-letterarietà. Il suo deciso abbassamento di tono, l’apparenza prosastica, hanno un significato e stanno dentro un universo poetico a lui famigliare.
Nell’introduzione, il curatore Alessandro Grandelis documenta la frequentazione appassionata, per tutta la vita, di poesia e poeti. C’è la l’amicizia con Montale e Eliot, descritti poi, dopo averli fatti incontrare, insieme a lui, a Londra - e aver commentato «ecco i due poeti che amo di più» -, l’uno come un «monaco umanista e sensuale», l’altro come un freddo «vescovo anglicano». C’è quella con Ungaretti, a partire dagli Anni Trenta, il non breve dialogo con Saba, i legami con Sandro Penna e Toti Scialoja, ma anche con i più giovani come Dario Bellezza o Elio Pecora. In altre parole, Moravia non è affatto uno sprovveduto quando si confronta con i versi. «Avrei voluto/ essere un poeta/ non sono stato/ che un romanziere/ tanto peggio/ per me/ ho sbagliato/ la sola/ vita/ che mi era stata/ concessa/ di vivere/ a meno che essere/ poeta/ sia proprio questo/ temere/ di non esserlo», leggiamo nel testo intitolato appunto Il poeta, dove il timore come forma di conoscenza si risolve in una sorta di ironia esistenziale.
Il «borghese» Moravia ama con totale dedizione il ribelle Rimbaud, cui dedicherà già nel ’50 un saggio dal titolo assai significativo: Rimbaud, poeta benedetto, parlando della sua «esperienza angelica»; ma nella pratica della poesia rifugge dall’utopia; ha nei confronti della storia e del paesaggio umano che lo contorna, della sua stessa condizione un atteggiamento fra lo stoico e il rassegnato; non prescinde dall’esistente e non lo ama («Sono capitato/ male/ in un paese/ degradato/ di poveri/ senza dignità/ e di borghesi/ senza cultura»), anzi lo sfida: e allora il passato può essere «come uno/ di quei sogni/nei quali si sogna/ di essere tra la gente/ col sedere/ nudo», il tempo che «non si muove» può essere, anzi è, «come un mulo/ seduto/ nel mezzo/ di un crocicchio» (inutile dunque pigliarlo a calci). 
Per lui la poesia è «l’arte del togliere. Tutta l’arte del Novecento ha arricchito e decantato quest’idea», dirà a Enzo Siciliano. Ma paradossalmente, rileggendo i suoi testi ora, sembra davvero che la sua «arte di togliere» non disgiunta a un’idea narrativa del verso, abbia guardato in zone apparentemente a lui estranee: non al primo Ungaretti «verticale» – maestro in quest’arte – e neanche ai molti abbassamenti prosastici del linguaggio, alla poesia antilirica piuttosto comune in quegli anni – basti pensare all’amico Pasolini – semmai a un fantasma imprevedibile. Quello magari del Palazzeschi «incendiario», cui sembra richiamare la grammatica poetica di Moravia: non tanto per i temi, quando proprio per la scansione del verso, quella magia palazzeschiana che Vincenzo Mengaldo definì come una «scansione a segmenti» dove il «minimo comune denominatore» del testo non è più il verso «ma un’unità sillabica e accentuativa», ovvero «in altre parole il piede». 
In Moravia questo è certamente vero per molti dei testi così interiormente scavati fino a sfiorare un grado zero. Fa eccezione, com’è ovvio, il poemetto che conclude la raccolta, di retorica alta e commossa, in memoria del grande amico assassinato a Ostia. Se Palazzeschi voleva di-vertirsi, Moravia sembra volgere il proprio di-vertimento, lo scarto dal percorso più ovvio, in direzione di un interno e indecifrato enigma; di un sé che si illumina al vibrare delle allusioni, forse fatalmente elusivo.