La Stampa, 18 maggio 2019
Intervista a Francesco Tricarico
Molti ricorderanno Francesco Tricarico per la sua prima canzone, Io sono Francesco, quella di «Putt… la maestra», un grande successo che ha quasi vent’anni (era il 2000). Da allora Tricarico è molto cambiato, ma non nell’irriverenza del pensiero: ora pubblica un librino con La nave di Teseo, Palla persa (32 pagine, 6 euro), dipinge (il 23 alla galleria Fabbrica Eis di Milano inaugura la mostra T2) e fa dischi. In attesa del nuovo album, è in giro il singolo Abbracciami fortissimo.
Palla persaè una favola, le parole e i disegni sono tutti suoi.
«Disegno da tanto tempo. Facevo miniature erotiche, il mio attuale gallerista le vide e mi disse: “Smetti di disegnare peni e vagine, fai qualcosa di più grande”. Adesso disegno e dipingo su tela e su carta e più il quadro è grande più mi diverto. Il grande mi faceva paura, ora mi piace avere più spazio a disposizione».
Forse perché lei è minimalista dentro?
«Forse sì, essere semplici è un modo per dare ordine al caos, all’universo, a misteri che non hanno risposte. Ognuno hai i suoi motivi per fare le cose. Il mio è la paura di non lasciare traccia. Mio padre, per esempio, io non me lo ricordo. Fare qualcosa che resta è la mia sfida, mi dà pace».
Comunque, è un po’ meno minimalista di un tempo.Generazione, la sua penultima canzone, è ispirata alla sinfonia Dal nuovo mondo di Dvorak…
«È una cazz…». (e ride).
E Abbracciami fortissimoa un mito indiano.
(Ride) «No, nasce da un fatto personale, una separazione. È una storia vera, ma non voglio scendere in particolari, è bene che tutto rimanga interpretabile, il fatto più triste col tempo può diventare poesia, cantarlo significa cercare di renderlo universale».
Allora che negli ultimi tre anni ha vissuto in una fattoria dell’Ohio…
«…non è vero. Avevo fatto foto con un cappello da cowboy e mi sono inventato questa storia. L’altra sera guardavo il terzo film di Thor con mia figlia e lei mi ha chiesto: esiste? Le ho detto: se qualcuno l’ha pensato, in un certo senso esiste. L’immaginazione cambia la realtà, Bob Dylan non sarebbe Bob Dylan se non avesse immaginato di diventarlo. Neanche Thomas Mann, né Bach. Neppure Maurizio Cattelan».
Lei è diplomato al Conservatorio: come è arrivato alle canzoni?
«Mi diplomai in contrabbasso, ma sapevo di non avere la costanza e la diligenza per essere concertista. Provai con il free jazz, scoprii che non era così free. Intanto avevo preso in mano una chitarra, mi resi conto che nelle canzoni c’era il mondo, l’armonia, la melodia, la parola, la voce. Iniziai a frequentare uno studio di registrazione a Milano».
E lì nacque Francesco: come visse quel successo?
«Avevo 29 anni, non gli diedi troppa importanza. Solo ora apprezzo la libertà che mi ha dato. Mi piace quello che faccio, spesso non quello che gli sta attorno, anche se ora ho con me una squadra fantastica. Cerco di arrivare a un risultato che ancora non vedo. Ci vuole pazienza».
Come è nata la favola Palla persa?
«C’è un film con Will Smith, After Dark, in cui si dice: il pericolo è reale, la paura è una tua scelta. È una favola sulla paura, mi piaceva che a un certo punto arrivasse la Paura, una signorina bellissima, e dicesse al ragazzino protagonista: tranquillo, vediamo cosa succede, tutto è superabile, anche il deserto. La paura è un’arma potente, la usa la politica, la religione. È controllo».
L’ha dedicata ai suoi figli: forse per aiutarli a battere la paura?
«Non so quanto servano i libri. Ho fatto tante belle letture da ragazzo, ma poi è la vita che insegna».
Cosa ha imparato dall’esperienza discografica con l’industria ancora potente dei primi 2000?
«Che chi investe ha bisogno di certezze. E che non ero in grado di darle. Ero completamente libero, ingovernabile. Oggi comandano i social, e non è meglio, si vuol credere che sia tutto un passaparola quando non è così. Oggi sono tutti bravini. La canzone era rivalsa, riscatto sociale, adesso è un lavoro come un altro. Sono professionali, non puoi dire nulla sui testi, carini, personali, con qualcosa di sociale. Nulla di artistico, però».
D’altra parte, come si conclude la sua canzone Generazione?
«Con le parole “Che ha fallito”. È così. Forse sono tutte quelle pastiglie al fluoro che abbiamo preso da bambini. Dicono che quando c’è una guerra si perde una generazione, forse noi cinquantenni siamo stati in mezzo a una guerra e non ce ne siamo accorti, tangentopoli, l’eroina… il fluoro».
Avrà notato che il passaggio di testimone del potere ha saltato i cinquantenni: dai padri si è passati ai fratelli minori, Renzi, Di Maio, Salvini…
«Non riesco ad ascoltare i politici di adesso, non riesco a crederci, non posso penderli sul serio. Faccio finta che non esistano, non me ne occupo. È un momento complesso, magari i grandi poteri stanno prendendo tempo per decidere delle nostre vite. Non riesco ad appassionarmi, anche se capisco che questa classe politica può fare disastri. Come con i migranti. Pagano i più deboli».
Quando uscirà il nuovo album?
«Navighiamo a vista, una canzone alla volta. Ne ho tante, quasi pronte, belle. In estate aprirò i concerti di Francesco De Gregori. È bello avere la stima di uno come lui, un gigante. Sento un legame artistico che mi fa venire voglia di scrivere, di fare. In senso collettivo, non autoreferenziale. Forse è il nostro turno di raccontare quello che c’era prima. È arrivato il momento di diventare grandi. Di diventare padri».