il Giornale, 18 maggio 2019
I sette latinisti del Papa
Lingua morta, un cavolo! Il latino vive e lotta insieme a noi, godendo di ottima salute; un classico intramontabile come lo smoking nelle gran soirée. Però in Vaticano – differentemente che sul red carpet del Festival di Venezia – a fare il monaco non è solo l’abito, ma soprattutto la lingua: quella latina, ovviamente. E non sono ammesse deroghe. Neppure quando quel diavolo del vocabolario modernista ci induce in tentazione lessicale con parole come «tweet», «mail», «gps», «pc» e via socializzando. Termini internettiani a prima vista intraducibili, considerata l’oggettiva incomunicabilità tra la generazione del web e quella dei Cesari. Dall’alfabeto web allo script latino, operazione dunque impossibile? Per i comuni mortali sì. Ma non per chi ha i giusti santi in paradiso. È il caso di monsignor Waldemar Turek a capo di una speciale struttura (detta, Sezione Latina) composta da sette esperti che operano nell’ambito della Segreteria di Stato «occupandosi di scrivere e tradurre in latino vari tipi di documenti tra i quali anche i tweet del Pontefice». Esigenza tanto più avvertita da quando Papa Francesco è diventato il Signore del «cinguettio», seguito da oltre un milione di follower. Una realtà di apostolato virtuale che è all’origine del libro della Lev (Libreria editrice vaticana) Breviloquia Francisci Papae, basato proprio su una parte del lavoro dell’Ufficio delle Lettere Latine.
«Da diversi anni traduciamo in latino i tweet del Santo Padre – ha spiegato a Vatican News monsignor Turek -. In particolare il volume presenta i messaggi in latino con a fronte la traduzione in italiano. Il suo obiettivo è sicuramente dare un’occasione di conoscenza in più ai giovani ma anche permettere a persone più anziane, che non hanno familiarità con i social, di seguire questa frontiera. Abbiamo vari dizionari di lessico del latino recente che ci servono per esprimere i contenuti di oggi». Qualche esempio? «Computer diventa instrumentum computatorium. Nel caso della parola Gps (sistema di navigazione satellitare) che non esiste nel dizionario, abbiamo preso in considerazione l’etimologia e il significato dell’acronimo inglese. Il risultato? Universalis loci indicator».
Affascinante anche la genesi del titolo del libro: «Dovevamo tradurre il termine tweet – racconta il capo dei traduttori latinisti di rito bergogliano -, una parola che significa cinguettare, traducibile in latino come friguttio. Esiste pero’ un altro termine breviloquia che vuol dire breve componimento. Benchè non sia la traduzione letterale, abbiamo ritenuto che questo vocabolo latino esprima al meglio il messaggio del volume, scegliendolo così come titolo».
Un’operazione un po’ forzata? «Per nulla – replicano i sette saggi addetti alle traduzioni -: la lingua latina si trova perfettamente a suo agio con la rapidità dei tweet; infatti, attraverso le declinazioni si risparmiano pronomi, articoli e preposizioni, rendendo densa, sintetica e flessibile la comunicazione». Alla faccia di chi attribuisce, erroneamente, al latino un tasso di modernità pari a quello di un gettone telefonico nell’era dell’iPad.
Ma la sfida continua e ricorda un faccia tra Gutemberg e Zuckerberg dove a vincere è, incredibilmente, il primo.
Vuoi mettere la freddezza di una mail con il calore di un nuntius electronicus o la banalità di un videomessaggio con l’originalità di un nuntius televisificus? Non c’è gara.
La traduzione è finita, andate in pace.