il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2019
Francis Fukuyama contro Facebook
“I social media alimentano quella che io chiamo politica dell’identità, ci permettono di interagire solo con chi è d’accordo con noi e silenziare tutti gli altri, alzando barriere tra comunità identitarie”. Francis Fukuyama insegna a Stanford, da quando ha pubblicato il suo libro del 1992 La fine della storia e l’ultimo uomo è forse il politologo più citato al mondo. Da poco è uscito in Italia il suo nuovo libro, Identità (Utet). Oggi Fukuyama lavora a un progetto di ricerca su Internet e democrazia. È in questa veste che interviene alla conferenza “Piattaforme digitali, mercato e democrazia” organizzata dallo Stigler Center dell’Università di Chicago, diretto dal professor Luigi Zingales. È l’occasione per parlare di social media e politica e non, per una volta, di fine della storia.
Professor Fukuyama, pochi giorni fa Facebook ha chiuso varie pagine accusate di diffondere fake news da una ong, Avaatz. È censura privata?
Prima o poi le piattaforme dovevano iniziare ad agire, non come censori ma come media tradizionali: devono essere responsabili di quello che diffondono. Ma con questa evoluzione la dimensione di Facebook diventa un problema.
In che senso?
In un ambiente competitivo, se non mi piace come Facebook modera i contenuti, possono passare a un altro social network. Ma nel mondo reale non ci sono alternative. In alcuni Paesi Facebook e Google agiscono come autorità pubbliche che controllano la sfera del dibattito collettivo. E questo non dovrebbe essere consentito a un’azienda privata.
Il co-fondatore di Facebook, Chris Hughes, propone di smantellare l’azienda in parti più piccole, per ridurne il potere.
Gli strumenti dell’antitrust possono essere utili a ridurre il problema della dimensione eccessiva di Facebook. Quello dei giornali è da sempre un settore poco regolato, mentre la politica ha sempre messo molti paletti da rispettare per le televisioni. Perché i giornali sono molti e le tv poche: un potere troppo concentrato è pericoloso in democrazia. Per Google e Facebook, invece, finora questa attenzione alle implicazioni della loro dimensione non c’è stata.
Ma tutti sono d’accordo che i contenuti falsi o offensivi sono un problema sui social.
Lo stesso gesto in una foto può voler dire “tutto ok” oppure “sono un suprematista bianco”. Dipende dal contesto. E Facebook non ha la competenza e la legittimità per decidere in quali circostanze è lecito fare un gesto o tenere un certo comportamento e quindi quali foto sono da oscurare e quali no.
In Sri Lanka, dopo l’ultimo attentato, il governo ha ordinato la chiusura dei social. Che ne pensa?
Le piattaforme sono capaci di anticipare queste mosse, senza bisogno dell’input dei governi. Non credo che la richiesta del governo di chiudere i social sia stata fondamentale per far sparire dalle piattaforme i contenuti critici. Ma la minaccia di un intervento pubblico può contribuire a rendere più responsabili le piattaforme.
Nei suoi libri lei indica la Danimarca come il punto di arrivo delle democrazie liberali. Nella sua Danimarca ideale, che spazio c’è per i social network?
In Danimarca c’è una tv pubblica che, come la Bbc in Gran Bretagna, è molto autorevole e indipendente dalla politica. Un modello che i Paesi dell’Europa del Sud non sono mai riusciti a replicare. In Italia l’influenza della politica sulla tv pubblica ha creato le condizioni per far emergere le tv private di Silvio Berlusconi. Queste gli hanno permesso di costruirsi una carriera politica che poi gli è servita per difendere gli interessi di quelle stesse aziende. Un modello che purtroppo si sta diffondendo, dalla Repubblica Ceca all’Ungheria: uomini molto ricchi comprano televisioni e giornali non perché redditizi, ma perché hanno peso politico. E peggio vanno i conti dei giornali tradizionali, più diventa conveniente comprarli per chi cerca una leva per aumentare la propria influenza.
Anche Jeff Bezos di Amazon si è comprato il Washington Post per le stesse ragioni?
Esatto. Ci vorrebbero invece dei media pubblici e autorevoli. Ma prima servirebbe un minimo di consenso sociale e politico sulle regole di fondo nei singoli Paesi. Un consenso che c’è in Germania, Scandinavia o Svezia ma non negli Stati Uniti: qui il dibattito è troppo polarizzato, chi sta su posizioni estreme non riconosce alcuna legittimità a quelle più equilibrate e intermedie. E allora l’unica alternativa è avere un mercato molto competitivo in cui si moltiplicano i punti di vista e nessuno può imporsi.
Donald Trump governa a colpi di tweet ed è sempre più divisivo. Può essere rieletto nel 2020?
La maggioranza degli americani non lo ama, non è mai andato oltre un gradimento del 35-40 per cento. Ma il problema è che i democratici rischiano di scegliere il candidato sbagliato e di permettergli così di vincere di nuovo. Se scelgono qualcuno troppo a sinistra o comunque screditato, Trump potrebbe farcela.
Chi è il meno peggio tra i venti candidati democratici alla presidenza?
La scelta più ovvia è Joe Biden, l’ex vice di Barack Obama. Se avesse vent’anni di meno sarebbe sicuramente l’uomo giusto.
Biden è anziano, bianco, molto lontano dai giovani e dalle minoranze che compongono gran parte dell’elettorato democratico.
Non è detto che sia un male: i democratici hanno insistito troppo sulla politica identitaria, con l’ossessione di avere un afroamericano, una donna, un ispanico, un omosessuale… Avere un maschio bianco come candidato non è la cosa peggiore che potrebbe capitare. Con le rivendicazioni identitarie si mobilitano alcune parti dell’elettorato, ma se ne perdono molte altre. Nel 2016 è stato proprio questo approccio identitario che ha spinto molti elettori bianchi verso i repubblicani.
Che aspettative ha sulle elezioni europee di domenica prossima?
Spero che i populisti non abbiano un risultato troppo netto. Ma in ogni caso non potranno mai essere una coalizione stabile perché hanno interessi troppo diversi e quindi la loro influenza sarà limitata. L’importante è che queste elezioni non si trasformino in un rifiuto netto del progetto di Unione europea che continua ad avere un ruolo molto importante.