Corriere della Sera, 18 maggio 2019
A Cannes i ragazzi inquieti di Dolan (intervista)
CANNES Se Bruce Springsteen è Born in the Usa, come dice la sua canzone simbolo, Xavier Dolan è, artisticamente, nato a Cannes. A 30 anni appena compiuti, questo talento del Canada francese ogni volta che ha partecipato al Festival ha vinto qualcosa, fino al Grand Prix del 2016 per È solo la fine del mondo. Il più giovane fra i 21 in gara è la rockstar del cinema d’autore, amato (non soltanto dalla comunità gay) per l’intensità e il saper raccontare le ferite dell’anima facendosi carico delle sofferenze. Torna in gara con Matthias e Maxime. Lo incontriamo a margine di una sua masterclass promossa da Mastercard e curata da Tiziana Rocca.
Di cosa parla il film?
«Di un gruppo di amici di Montreal, si riuniscono dopo tanti per un weekend. Due giovani, che erano uniti per la pelle, si ritrovano, gli viene chiesto di scambiarsi un bacio per il cortometraggio di uno studente. Dopo tanti anni si insinua il dubbio, minacciando il circolo della loro vita sociale. Le loro vite cambieranno. I migliori amici da una vita, si accorgeranno di essere innamorati l’uno dell’altro. Io interpreto Maxime, Matthias è Gabriel D’Almeida Freitas, che nella realtà è un comico del Québec».
Che cosa davvero rappresenta Cannes per lei, e come vive glamour e pressioni?
«Questo Festival vive di contraddizioni. Trovi gli intellettuali, le star da tutto il mondo, gli influencer su Instagram. È il mio palcoscenico. È frustrante non poter vedere i film dei colleghi, ma stavolta resto per una settimana e dovrei farcela. In cima alla mia lista sono Les Misérables, Mendonca Filho e gli esordi della senegalese Mati Diop e della mia amica Monia Chokri che recitò per me».
Perché l’omosessualità resta un tabù nella società?
«La sessualità è una forma di identità che dà potere. L’omofobia appartiene a un gruppo di persone, che sono uomini, e limitano la loro visione del mondo a una sola storia. La gente ha difficoltà a accettare quello che non comprende».
Che idea si è fatto del caso di Alain Delon e le proteste delle femministe alla sua Palma onoraria per il machismo e presunto sessismo?
«Dire che appartiene a un’altra epoca è una scusante che non regge, ma non ho elementi per giudicare questa vicenda».
C’è chi le rimprovera di parlare spesso di omosessualità?
«Tanti dicono che è uno dei miei temi. Per l’eterosessualità però non si dice: è uno dei temi. Io indago il rapporto tra felicità e libertà di essere ciò che sono, ma non sempre si raggiunge la felicità. Ho trattato il rapporto tra una madre e un figlio, l’impossibilità di amare, o storie di amicizie, come nel film che porto a Cannes».
Torna dopo cinque anni a recitare.
«L’ho fatto nei miei primi film. Ho sempre dato priorità agli altri attori. Mi circondo di persone che sono molto critiche con me, ed è una salvezza. Quando scrivo non penso mai a una eventuale parte per me. È stato un mio amico a dirmi che era perfetta per me».
Ha cominciato a dirigere giovanissimo.
«Il mio primo cortometraggio a 10 anni, il film a 20. Il problema era iniziare. Siccome non me lo facevano fare gli altri, l’ho fatto da solo, parlando di me, con Ho ucciso mia madre. Da piccolo come attore ero frustrato: mi dicevano, sei troppo alto o troppo basso, troppo giovane… Allora sapete che vi dico? Le storie me le scrivo da solo. Così sono diventato regista».
Un processo naturale.
«Sì. Non ho un’educazione cinefila, non ho visto troppi film e me ne vergogno. Mi piacciono i film sulla gente che combatte per le proprie idee, contro la società che si oppone. Dopo il mio esordio non volevo più continuare a studiare. Volevo continuare nel cinema, e migliorarmi. Non mi dico: ora vado a cambiare il mondo. Ma qualche cambiamento si può avere grazie a un film».
Cosa si aspetta da Cannes?
«È straordinario e mi fa paura allo stesso tempo, le grandi aspettative possono essere una maledizione. Sono riconoscente, cercherò di viverlo come un gioco, accettando l’idea che quest’anno possa andare in maniera diversa».