Corriere della Sera, 18 maggio 2019
Trump vuole davvero la guerra con l’Iran?
Il rischio da evitare, ora, è quello di una «proxy war», la guerra per procura. Da una parte gli Stati Uniti con Israele, Arabia Saudita ed Emirati Arabi; dall’altra l’Iran. Ieri, nel corso di una riunione ristretta con i generali, Donald Trump ha detto che non è sua intenzione «scatenare un conflitto militare» con Teheran. Le fonti di tensione, però, si moltiplicano. Il figlio del re saudita, nonché viceministro della Difesa saudita, Khalid Bin Salman, accusa le Guardie della Rivoluzione iraniana di aver ordito l’attentato, condotto dai ribelli yemeniti Houthi, contro l’oleodotto che taglia la Penisola araba da Est a Ovest. E ancora, sauditi e americani sostengono che ci sia la mano degli ayatollah dietro il sabotaggio delle quattro petroliere (due di Riad, una norvegese e una degli Emirati arabi), avvenuto nelle acque del Golfo Persico tra l’11 e il 12 maggio.
Il Pentagono mantiene lo stato di allerta, da quando il 5 maggio scorso il consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, aveva annunciato l’invio nella regione della portaerei Abraham Lincoln e di uno squadrone di bombardieri B-52. La Difesa americana fa sapere di avere immagini satellitari che mostrano imbarcazioni iraniane trasportare di nascosto dei missili.
Dall’altra parte arriva l’avvertimento di un alto ufficiale dei Pasdaran (le Guardie della Rivoluzione), Mohammad Saleh Jokar: «I nostri razzi hanno un raggio di azione di duemila chilometri e quindi possono colpire facilmente qualsiasi nave nel Golfo Persico».
Tutte queste dichiarazioni bellicose potrebbero accendere o riaccendere scontri più o meno ad alta intensità in Iraq, in Siria, nello Yemen e, forse, anche in Libano, dove operano gli Hezbollah, tra gli alleati più stretti degli iraniani.
In queste ore, però, a Washington la strategia di attacco sostenuta da Bolton sembra perdere forza. L’ex ambasciatore Onu ha ricevuto solo un appoggio parziale dal Segretario di Stato, Mike Pompeo, favorevole a una stretta durissima, ma non al conflitto militare con Teheran. E soprattutto la visione di Bolton non raccoglie consensi nel Congresso a cui spetta «dichiarare guerra», come ha ricordato giovedì scorso la Speaker Nancy Pelosi. Al momento solo il senatore repubblicano Ted Cruz appoggia il consigliere per la sicurezza.
L’incognita maggiore, come sempre, si chiama Donald Trump. Il presidente pare ora convinto a tornare sul sentiero diplomatico costruito da Pompeo: sanzioni durissime, fino a soffocare l’economia iraniana e poi negoziato esteso agli sponsor più potenti degli ayatollah, Cina e Russia.
Ma anche il governo di Hassan Rouhani sta facendo le sue mosse. Il ministro degli Esteri Javad Zarif ieri ha incontrato a Pechino l’omologo Wang Yi. La Cina, uno dei firmatari dell’accordo sul nucleare del 2015, sostiene in pieno le ragioni dell’Iran e avverte gli americani: «Lo Stretto di Hormuz (all’imbocco del Golfo Persico, ndr) deve mantenere il suo status di canale internazionale». Da lì transita il 20% del traffico mondiale di petrolio. I cinesi continuano a comprare il greggio iraniano, ignorando le sanzioni Usa.
Trump, tirando le somme, sembra puntare ad affrontare il dossier Iran nei vertici con Xi Jinping e Vladimir Putin, a fine giugno. Una prospettiva che potrebbe andare bene anche a Rouhani e Zarif. Nel frattempo, però, vanno evitati incidenti, contenendo Bolton a Washington e i Pasdaran a Teheran.